mercoledì 5 dicembre 2012

MENTRE FUORI TUTTO SCORRE


Diversi “ ciao” raggiungono le mie orecchie. È il saluto dei bimbi che abitano lungo il sentiero che prendo ogni mattina per andare alla scuola elementare. Loro non sono alunni. Indossano stracci e un caldo sorriso. Adesso che hanno imparato questa parola nuova cominciano a cantarla appena scorgono i colori della mia maglietta.

Le maman mi danno il benvenuto “ Okomi? ( Sei arrivata?)”. poco più avanti il piccolo Alexis mi corre incontro. Le sue gambette magre gli impediscono un passo veloce ma a me sembra che voli. Ride felice mentre lo sollevo. Mi sussurra sottovoce le risposte alle mie domande. Vuole venire con me. “ Tokende ( andiamo)” , mi dice. Il suo papà non mi dà il permesso per oggi. Prima vuole comprargli un paio nuovo di sandaletti e lavargli la camiciola. Mi si spappola il cuore quando Alexis con la manina e con la vocina piccola piccola mi saluta. 

Molte delle capanne sono già vuote. La gente è partita nei campi per andare a prendere le foglie di manioca e le banane. Per preparare il pranzo giornaliero. Una signora riempie la vasca per andare a lavare i vestiti al ruscello. Un uomo si arma di machete e parte a tagliare la legna per il fuoco.

Prima ancora di entrare in classe sento il coro dei bambini che ripetono le nozioni in una lingua che non è la loro.  Ma quella dei colonizzatori. Quella ufficiale. Il francese.

Ogni volta che arrivo nello spiazzo antistante la struttura, mi piace soffermarmi ad immaginare. È uno dei posti più “aperti” del villaggio. La foresta è onnipresente ma mi guarda da lontano. Il cielo, illuminato da un sole cocente, si estende in tutta la sua bellezza celeste. E le soffici nuvole bianche lo rendono veramente suggestivo. Il vento caldo soffia libero da tutti i punti cardinali. Porta con sé l’odore dell’estate. Parlavo di immaginare, infatti. Immagino di fronte a me una distesa d’acqua marina. Fresca, dalla superficie leggermente increspata. La sabbia fine sotto i piedi. E per un attimo mi sembra di essere a casa. Mi capita spesso di sentirmici davvero.

Busso alla porta aperta e 49 bambini sorridenti mi danno il benvenuto. Con lo sguardo cerco di salutarli ad uno ad uno. Qualcuno mi sfugge. I suoi occhi sono chiusi, la testa posata sul banco. La maestra, nel suo abito congolese dai colori sì un po’ sgargianti, ma per me tanto elegante nelle linee, mi dice che è ammalato. Gli tocco la fronte. Brucia. E non è un eufemismo. Non è certo un caso isolato. Anche nell’altra prima ( 50 alunni) c’è chi ha la stessa temperatura. Chi si precipita fuori per vomitare. Chi piange e si tiene il ventre gonfio. L’umidità dell’Equatore, la monotonia del cibo, la trascuratezza nel curarsi. Questi e altri fattori la causa di malanni diffusi. Oh, ma questi bambini mi stupiscono sempre. Il giorno dopo li ritrovo in piena forma. Pieni di grinta e capaci di tutto. A volte, però, qualcuno non torna più.

Prendo il malloppo dei quaderni e vado a sedermi in fondo. Oggi scriveranno la consonante n con tutte le vocali. Non hanno libri da portare a casa nello zaino. La maggioranza lo zaino non ce l’ha. Chi lo possiede lo lascia sulle spalle per tutta la giornata. Non se ne separa mai. Una volta uno di loro ci aveva perfino infilato sopra la felpa! Lo stesso vale per la matita. Ci giocano, la usano come “ picchia compagno”, la mordicchiano ma non la mollano. La stringono in pugno come il bene più prezioso.

Non ho mai visto in una scuola ( è l’alunna che sono stata che parla) tanto entusiasmo e tanta voglia di fare esercizi o andare alla lavagna. Il ditino sempre alto e lo slancio incontenibile per farsi scegliere. Per essere il fortunato che andrà alla lavagna. È il turno di Christine adesso. In una mano il gesso, nell’altra il righello per tracciare il quadrato. Ad un certo punto prende dalla cattedra un pezzo di spugna e cancella. E adesso? Sono tre gli oggetti e le mani due. Ci pensa su un attimo. La decisione è stata presa. Posiziona la spugna in perfetto equilibrio al centro della testa. E riprende là dove si era interrotta. Sorrido estasiata. D’abitudine la testa è considerata un mezzo di trasporto. Che siano ceste di foglie di manioca o vasche di abiti lavati. Libri o fasci di paglia. La testa trasporta tutto. Anche la spugna per cancellare la lavagna!

La maestra si assenta un momento. Sono sola. Mi fissano con una timidezza che dura solo qualche secondo. Basta che il primo cominci a infastidire il secondo che il disordine prende il sopravvento. Controllarli è impossibile. Sedi una rissa a suon di sandali a destra e devi correre a capire perché piange quello a sinistra mentre un altro è corso a rubare la matita a chi è seduto avanti. Come faccio a fermarli?!?

Parlo in lingala ma questo non fa altro che provocare risatine ( un giorno ho dato il permesso a Dominique per uscire e andare in bagno. Questo almeno ero quello che io credevo mi avesse chiesto. In realtà è tornato a casa e la sorella lo ha riportato indietro!!!).


Passo al francese e perché non sbeffeggiare la demoiselle con le imitazioni??

L’italiano è l’ultima spiaggia. L’importante è non parlarlo ma cantarlo. Lo so, lo so. Questa non è certo la condotta di una buona insegnante ma…non lo sono mai stata e comunque, in qualche caso, questo per esempio, il fine giustifica i mezzi. Almeno catturo la loro attenzione! Mi fanno troppo ridere quando ripetono le mie parole…vieni con me, ti insegnerò la canzone della felicità…bobon bobon bobon!

A proposito di mezzi. Queste piccole pesti sono talmente vivaci e abituati anche a casa ad obbedire solo se ricevono qualche righellata, che costringono le maestre ad usare quei metodi che anche ai tempi del mio papà andavano di moda. Che dire? Esagerare non è certamente accettabile e su questo non ci piove. Posso assicurare, infatti, che il livello di punizione a cui ho assistito non è mai stato tanto grave da impedire al monello di tornare al suo posto con un sorriso già pronto a spuntare sotto i baffi! Io stessa ho impedito a cinque di rientrare a casa se non dopo diverso tempo che il resto era partito. Liberi di non crederci ma al permesso di uscire hanno cominciato a spingersi e a rincorrersi come se nulla fosse.

Un giorno però abbiamo tutti avuto paura. Eravamo andati nel cortile per osservare i luoghi vicini alla scuola. Al rientro mi trovavo vicino la porta per dirigere il traffico di entrata e vedo una cosa muoversi sotto la porta. Come una corda nera. Non volevo crederci. Ma appena il primo bimbo ha gridato “Gnoca ( Serpente)” per dare l’allarme, allora ho cominciato a sudare freddo. Chi era ancora fuori si è guardato bene dal muoversi. Mi preoccupava, infatti, la situazione di chi era già in aula. Mi immaginavo già il serpente che mordeva qualcuno! Insieme alla maestra siamo riuscite a tirare fuori tutti. Le grida avevano già fatto accorrere tutta la scuola e due ragazzini che lavoravano il campo vicino. Sono entrati e hanno seguito il serpente che passeggiava fra i banchi. Un colpo di machete e un sospirone generale alla vista del corpo, ma non solo. Anche urletti da stadio ad ogni singolo spasmo che scuoteva il rettile. Nero sulla schiena. Giallo sulla pancia. Lungo una settantina di centimetri, velenoso. Contenti per la sua fine? Si! Tutti. Soprattutto il cacciatore che ha portato a casa il bottino per una bella zuppa! Posso dire che il difficile è stato dopo. Convincere i piccoletti che non ne avremmo trovati altri e che potevano spostare i banchi e non sedersi là dove il sangue aveva sporcato il pavimento.

Durante l’ora di musica ho anche l’occasione di imparare l’inno nazionale. Sarà che quando andavo a scuola, le mie care maestre mi hanno trasmesso il senso patriottico imparando “Fratelli d’Italia” ma mi tocca sempre sentire “Début Congolais” e non posso fare a meno di pensare a questa Repubblica. A quanto sia ricca di contraddizioni politiche e culturali. Di tradizioni, credenze e culti ancestrali. Di odio. Di problemi viscerali. Di ricchezze rubate e mal gestite. Di vittimismi. Di odori. Di sogni vivi e sogni infranti. Di guerre. Di ingiustizie. Di inutili e fastose prassi burocratiche. Di colori. Di apatie. Di ribellioni. Di sofferenza. Di pregiudizi. Di sorrisi. Di vizi. Di morte. Di vita.

La ricreazione è uno dei momenti che preferisco. A volte resto fuori a guardarli rincorrersi, scalzi sulle pietre ( ma come fanno?) per match di football improvvisati; lasciare che l’acqua scorra sulle loro teste calde; abbuffarsi di mais bollito conservato nelle foglie di banano. Alcuni poi rinunciano a tutto questo solo per restarmi seduti vicino. Mi accarezzano le braccia e mi dicono tante cose. La maggior parte delle quali non capisco. Uno di terza, François, mi viene in soccorso. E mi fa da traduttore. Che tenero!

Dopo la ricreazione inizia la fase più faticosa. Il sole è già alto. Il caldo sembra fungere da abbassa palpebre. Anche solo scrivere diventa uno sforzo gigantesco. Lo so perché la prima vittima sono io. Penso che anche la fame giochi un ruolo importante. Abituati ad un solo pasto giornaliero, è vero, ma abituati a farlo in qualsiasi momento della giornata. Come può essere la mattina presto ( e non pensate a latte e biscotti ma a riso e fagioli) o il pomeriggio tardi. Ad un certo punto lo stomaco reclama. Ma per fortuna è solo un’ora e mezza e quasi sempre negli ultimi trenta minuti ci si dedica ai compiti. Addio sonnolenza e flemma, l’energia rimonta e cominciano i giochi del cercare di rubare le matite, di strappare le pagine altrui, dei pianti per non avere il quaderno perché “Papà alobi, mbongo azi te ( Papà ha detto che non ci sono soldi)”. È in questo momento che arrivano le mie crisi. Vengo chiamata da tutte le parti. Scorgo sui quaderni delle difficoltà insormontabili. Mi sforzo per farmi ascoltare ma invano. Fortuna che la campanella non tarda a suonare. Un momento. La campanella di cui parlo non è quella a cui siamo abituati noi. È un pezzo di ferro ( in molti casi il cerchione arrugginito di una ruota) appeso a due pali e che viene picchiato con un bastoncino.

I bimbi più grandi vengono a curiosare, là nella classe dove io cerco di mettere in ordine i quaderni. Poi, a volte, la fortuna di sentirli cantare la preghiera. C’è una canzone dedicata a Maria che intonata da quelle teneri voci mi fa venire i brividi.

Saluto la direttrice e mi avvio sulla strada del ritorno. Oh, quanto mi piace tornare a casa! Perché? Perché non sono MAI sola. Tre, quattro,cinque. Un gruppetto mi si affianca. Chi fa a gara per tenermi la mano. Chi ha troppo caldo, resta in canotta e si avvolge come un turbante la camicia sulla testa. Chi mi chiede soldi o caramelle. Ma anche soldi e caramelle. Chi ha in bocca un filo d’erba. Chi continua ad indossare i panni del capoclasse anche fuori. Chi mi chiede se domani andrò ancora.

Alcune capanne sono esattamente così come le ho lasciate. Altre brulicano di vita. “Osongi? (Rientri?)”, mi chiedono. “Ehhhhh!”. Confermo alla loro maniera. Con questa “e” strascicata. Non so perché ma quando mi parlano come una di loro mi sento bene. Magari fosse sempre così. Purtroppo non lo è. Il disprezzo è dietro lo sguardo cupo della donna che non risponde al mio saluto. Dietro alle parole di chi mi ha detto che alcuni bambini hanno paura di me perché i coloni europei hanno mangiato i congolesi. Dietro alle risate di chi mi indica quando passo di fronte al mercatino.

Salto con un balzo il ruscelletto che si trova per la strada. Lo stesso che ingranditosi, una volta, mi ha costretto a prendere il percorso più lungo sotto la pioggia. Gocce fredde fredde. Maglia fradicia. Occhi mezzo chiusi. Ma che sensazione di libertà!

Siamo usciti sulla strada principale. Il via vai è continuo. Commercianti ambulanti, bici stracolme. Rivoli di sudore scendono lungo la schiena. Donne con la legna accatastata in testa. Già alcuni ragazzi che tolta la divisa portano bidoni carichi d’acqua. Il villaggio non si ferma mai. Arrivo a casa. Saluto i lavoratori e il resto della comunità. Entro, mentre fuori tutto scorre.

lunedì 5 novembre 2012

SOLO


Il vento soffia leggero fra i rami e le foglie. I miei piedi marciano cauti. Un passo dopo l’altro. La testa china, attenta a possibili movimenti strani. I profumi si alternano. Ora sono tenui e delicati, un attimo dopo aspri e pesanti. L’aria è umida, quasi tangibile. Qualche goccia d’acqua rotola giù dalle foglie larghe come ombrelli. Il colore dominante è il verde. Sono nel cuore palpitante della foresta equatoriale, quella foresta dell’Africa Nera di cui, fino a poco fa, avevo solo letto o visto nei documentari insieme al mio papà.
Qualche volatile salta da un ramo all’altro. Grosse formiche procedono in fila indiana. Non mi era mai capitato di imbattermi in esemplari così grossi! Fanno un vero e proprio brusio al loro passaggio. Ognuna trasporta delle uova. Come sentinelle, ogni tot, le vedette, posizionate all’esterno della colonna, sorvegliano la marcia delle compagne. Incredibile!
I miei accompagnatori, Fabio, l’agronomo italiano, Joseph, l’agronomo locale e Nicolas, coltivatore figlio della foresta, scandiscono il ritmo dell’escursione. Fabio sta portando avanti un progetto sulla biodiversità forestale che prevede la realizzazione di un orto botanico anche a sostegno della medicina tradizionale. È per questo che si reca nella foresta facendosi accompagnare dalla gente del posto. 
Nicolas è in testa. Armato di machete ( la tipica ascia congolese), ci apre la strada. Ci fermiamo sotto un grande albero. Ci dice di pazientare. Si allontana, sparisce dietro un  muro di liane. Qualche colpo di machete ed eccolo riapparire con un ramo stracolmo di foglie e qualche bacca rossa. Comincia con il dirci il nome della pianta. Anzi, no. I nomi. In due lingue diverse, lingala ( una delle 4 lingue veicolari della RDC) e chimbetu ( la lingua della tribù maggioritaria a Rungu). Nicolas ci svela un mondo tutto nuovo. Cosa quella pianta può curare, come preparare l’infuso, quante volte al giorno somministrarlo. Ho pensato che è davvero come si dice: la natura ha tutto quello di cui l’uomo ha bisogno. È anche vero però che, spesso, la medicina tradizionale e i suoi praticanti ( quelli che noi chiamiamo stregoni o guaritori ma che qui sono conosciuti come “ganga kisi”, cioè donatori di medicinali, o féticheur) non sono capaci di risolvere tutti  i mali, ma per quell’oscuro lato dell’essere umano tendente alla frode e al guadagno a discapito di chi tenta l’impossibile per uscire dal tunnel della malattia, provocano morti evitabili se solo riconoscerebbero umilmente di non saper affrontare determinati casi clinici.
Fabio prende appunti e cerca di far corrispondere a quegli strani nomi dal suono ricco di “gb”, il nome scientifico, ora di quest’arbusto, ora di quel frutto.  Io  mi limito ad ascoltare e a racimolare rametti e radici. È così rilassante aggirarsi fra questi alberi! Ma non posso non fare caso a quella vocina nella mia testa, una vocina che richiama il consiglio di un amico ora in Italia, “ Ricorda che i serpenti non sono solo sul terreno. Possono anche cadere dal’alto. Dagli alberi”. È per questo che di tanto in tanto il mio sguardo si sposta frenetico dalla terra verso il cielo.
Sostiamo lungo le rive di un minuscolo ruscello che attraversa la risaia. Nicolas ci offre un pezzo di canna che cresce sulle rive. È come una caramella. Ricca d’acqua e zucchero. Ottima per soffocare la sete nelle mattinate tropicali. 
Poco dopo mi ritrovo a correre all’impazzata per non permettere alle terribili formiche urticanti di arrampicarsi su per le scarpe. Sono migliaia. In ordine sparso occupano un grande tratto del sentiero. Terribili! Qualcuna mi ha raggiunto il polpaccio. Mi fermo per cacciarla via. La sua boccuccia affonda nella mia pelle. Uno scricciolo dalla forza inaspettata!
Come se non bastasse ho il piede sinistro zuppo ! Saltare per valicare il ruscelletto mi ha trovato un po’ fuori allenamento, ahimè, pazienza!
Joseph mi mette alla prova indicandomi un albero alla nostra destra.           “ Questo lo conosci”. Guardo attentamente. Comincio a sparare qualche nome. Poi mi si accende una lampadina. Stacco una foglia e l’annuso. Un profumo che mi riporta in un altro luogo. “ Citron ( limone)!”. Ho indovinato! Che bello!!!
Quando nel senso opposto arriva qualcuno che ritorna con la provvista di legna accatastata sulla testa o con lunghi fasci di canapa per coprire il tetto della propria casa, il sentiero diventa troppo stretto e mi stupisco ancora una volta della loro capacità di infilarsi nel fitto della boscaglia per poi ricomparire dopo il nostro passaggio.
Ci lasciamo alle spalle il fitto della foresta e torniamo fra le capanne del centro abitato. Il sole, prossimo al tramonto, colora il cielo di bellissime tonalità. Rosa, violetto, celeste, giallo caldo, bianco. Non posso fare a meno di sollevare il capo e lasciare che i miei occhi catturino questa quiete dipinta. In lontananza il suono del tam tam ( il tamburo). Il fumo dei fuochi all’aperto sale verso l’alto. Quasi come una nebbia ci impedisce di vedere chiaramente l’arcobaleno che fa da corona alle chiome degli alberi. La notte sta per colorare di nero tutto ciò che ci circonda. Solo fino a domani. Solo prima che ancora una volta Rungu si risvegli. Solo per ricordarci che siamo qui anche se il buio ci impedisce di vedere. Solo.

martedì 23 ottobre 2012

COMPAGNI DI VIAGGIO


 Rungu, 23 ottobre 2012

Oggi lascio che a parlare sia una persona speciale. Una simpatica e energetica signora nata nel 1937! È una delle mie compagne di questa incredibile avventura… Ha scritto questa lettera per ringraziare i suoi amici per ricordare un’occasione particolarmente degna di nota…! Grazie per il tempo che dedichi a me e a tutti noi!  
Vai Mariaaaaaaaaa!!!                                                             

“A proposito di tempo, sapete che ho festeggiato i miei 30 anni in Congo? Mi sembra ieri quando appena arrivata ho iniziato a lavorare all’ospedale “La Visitation” e lo smarrimento era il mio unico compagno. Piano piano la consapevolezza della mia scelta mi ha riempito di coraggio e come vedete sono ancora qui, con l’unico rimpianto di non essere arrivata prima!

Posso dire di avere visto nascere, crescere e anche morire tantissime persone, ognuna delle quali ha lasciato un segno nella mia vita. Ho incontrato tante difficoltà legate alle differenze culturali. Ancora adesso, per esempio, per molta gente è difficile accettare una malattia o addirittura la morte senza addossare la responsabilità del male ricevuto ad una persona di cui si riesce a conoscere l’identità facendo ricorso al culto tradizionale dello stregone.

Nonostante i tanti ostacoli che ho trovato per la strada, resta però la gioia dei ricordi custoditi negli anni passati tra le sale dell’ospedale.

I sorrisi stanchi delle neo mamme.

Le manine minuscole dei due gemelli, uno più scuro dell’altro, nati prematuri.

Gli sguardi vivaci dei bambini che dopo una violenta crisi malarica ritornano pronti per le loro marachelle.

I consigli che ho dispensato e quelli ricevuti dalle signore dalla pelle grinzosa, vecchie prima del tempo, spossate dal lavoro nei campi.

Le numerose volte in cui mi è stato chiesto di dare il Battesimo a un bebè troppo debole per sopravvivere , meno ancora capace d’aggrapparsi al seno della mamma già rassegnata a perderlo e il cuore che mi si stringeva dalla sofferenza ma che , in alcune miracolose occasioni, ha potuto anche gioire di una ripresa insperata. E c’è chi tra queste mamme viene poi a trovarmi spingendo avanti a sé quel bambino. Come a dire  “ Eccolo, guarda. È ancora qui!”.

Le visite ai bimbi del Centro Nutrizionale, sempre così imprevedibili, volubili, quasi adulti nel modo di fare, cresciuti troppo in fretta, impegnati a cercare un affetto che non trovano e a sopravvivere alla fame. Questa è una battaglia che spesso scopro che hanno vinto. Mi capita, infatti, di camminare per le strade dalla polvere rossa e fangosa e di ritrovarmi a rispondere al saluto di un ragazzino “ Bon jour demoiselle Maria!”. Un attimo per riconoscere dietro quelle braccia robuste che stringono dei quaderni consunti , uno di quei pazienti che temevamo di perdere. Adulto adesso. Alcuni li abbiamo visti frequentare la scuola materna, passare alle elementari e venire a chiedere lavoro per pagarsi il liceo e perché no, anche l’università.

C’è anche chi, proprio una settimana fa, ha fatto la sua promessa di fede, entrando nella congregazione dei Padri Comboniani e partirà per la sua missione in Perù. Una festa grande e sentita da tutta la gente. Si dice bene che qui i figli sono di tutti! Anche miei, che ho una pelle di un altro colore! Le differenze spariscono quando gli eventi della vita ci rendono compagni di viaggio e ci ritroviamo insieme a condividere le gioie e la voglia di vivere .

Parlando di viaggi, proprio lo scorso maggio si è presentata una piacevole occasione per ritornare ad avventurarmi come non mi capitava da tempo. La nostra comunità è stata invitata a prendere parte alla conclusione del lutto per la morte dello chef di Babagu, un villaggio che dista 65 km da Rungu. Spostarsi in moto per le strade dissestate di questa provincia, è stata un’impresa non da poco anche per una spericolata come me! La foresta da spartitraffico, la pioggia ad appesantire i nostri zaini, il fango e le buche a rallentarci il cammino e a costringerci a smontare e a procedere con l’acqua fino alle caviglie. Ma è stato anche un viaggio animato dai saluti degli abitanti delle capanne sparse lungo il margine della strada. Le corse dei bambini stupiti dal passaggio di quattro moto e quattro europee. Le grida di benvenuto in lingua locale di chi mi ha riconosciuto dopo tanti anni. Un tempo, quando le strade lo permettevano, insieme a Georgine, avevamo l’abitudine di fare catechesi e di distribuire la Comunione anche fuori dalla nostra parrocchia, per questo a Babagu ho ritrovato gente che mi conosceva. Mamma Leontine, per esempio, che non smetteva più di abbracciarmi e che ha insistito che accettassi come dono uno dei suoi polli. La semplicità di questa gente nel dimostrare il suo affetto non potrò mai dimenticarla.

La nostra piccola missione di ministre straordinarie continua anche adesso, ma solo nei quartieri di Rungu. Ogni domenica pomeriggio, indossiamo i nostri sandali consunti ma solidi e ci addentriamo nei quartieri per scambiare due chiacchiere con i malati, con gli anziani, con gli amici di un tempo e con i nuovi arrivati, magari profughi che hanno fuggito la guerra dell’est del Paese. L’ospitalità non manca mai. Anche l’onore di entrare nelle loro case. Non è abitudine qui restare tra le mura di una capanna. La vita si svolge sempre fuori. Nei campi, per le strade, in foresta. Avere il permesso di entrare all’interno di quello che è il cuore della famiglia è un gesto che mi fa sempre tanto piacere ricevere.

Al centro di tutto questo c’è la mia vita in comunità. Una vita fatta di condivisione quotidiana e di incontri speciali. Preti, frati, suore, laici, giovani, madri, padri, zie, provenienti da ogni parte del mondo. Gente che per un po’ della sua vita ha condiviso un pezzo del suo viaggio con me. Adesso, per esempio, ospitiamo tre giovani collaboratori : due ragazze che stanno per terminare il loro anno di Servizio Civile e un agronomo che segue un progetto sulla biodiversità forestale. Averli tra di noi rappresenta uno stimolo tutto nuovo e brioso che ci permette di ritrovare la nostra giovinezza e la nostra voglia di vivere, sempre all’insegna della missionarietà!

E dalla lontana Italia? Ci siete voi. Tutte quelle persone che ci sostengono con l’affetto, la preghiera, la generosità e l’entusiasmo, tutti fattori che ci rendono felici della nostra scelta e grati per il sostegno ricevuto!”


giovedì 20 settembre 2012

NANANANANANANA!



“Siiii, viaggiareeeee! Nanananananana!” Non ricordo come continua questa canzone di Battisti ma è il motivetto che canticchio silenziosamente mentre carichiamo gli zaini per il nostro viaggio a Dungu. Sono le 6:30 di sabato 8 settembre. La nebbia è scomparsa lentamente per fare spazio ad un sole caldo e carico di promesse. Si parte finalmente! Lasciate alle spalle le fobie (legittimamente fondate) per un’eventuale serie di imprevisti che ogni viaggio che si rispetti può nascondere, montiamo sulla nostra Land Rover bianca un po’ arrugginita. Dido ed Emmanuel sono i nostri autisti. Celestin e Faustin ci precedono in moto.
Un attimo. Sto correndo troppo. Occorre fare una piccola premessa. Qui il mezzo di locomozione per eccellenza è la moto ( terzo solo ai piedi e alla bicicletta). Le caratteristiche strade congolesi che attraversano come stretti serpenti di polvere e fango rosso la foresta tropicale sono capaci di svelare stupendi angoli di natura incontaminata solo grazie ad una buona dose di equilibrio, stomaco resistente agli scossoni e muscoli allenati. Le auto? Qui? Un miraggio! Ricordo bene il giorno del nostro arrivo ( quasi 7 mesi fa). I bambini che ci correvano incontro gridando “mo-tu-kaaaaa”. Mi sono chiesta da dove derivasse quell’entusiasmo, quello stesso tono usato quando si vede qualcosa di raro.
Intraprendere un viaggio in auto E’ un evento RARO. E questo l’ho capito mentre tentavo di uscire in fretta dal sedile posteriore mentre l’acqua rossa si faceva largo nell’abitacolo. Eravamo immersi fino alle portiere dal lato sinistro e impantanati nel fango dal lato destro, il tutto in un precario equilibrio. Cavolo, ho pensato! E meno male che il nostro amico agronomo ci ha detto “Ma cosa può succedere?”. Non potevo fare altro che pensare, dal momento che la mia forza di ragazza era insignificante in confronto a quella dei miei quattro amici congolesi che tentavano di tirarci fuori da quella pozzanghera. Ed eravamo partiti da quanto? Un’ora? Cosa altro poteva succedere? Sobbalzare decine di volte; dare testate al tetto della jeep; corrugare le sopracciglia al suono di scricchiolii dalla dubbia provenienza; avere l’orribile sensazione di stare per vomitare; temere che, durante uno degli svariati tentativi di venir fuori dal pantano, il cambio resti in mano a Dido come nella più classica scena da film; preoccuparsi per Celestin che cade con la moto scivolando nel fango. Ecco cosa.
Intorno a noi solo la macchia di un colore, il verde. Il verde dei grandi alberi della foresta tropicale. Le grida dei bambini che abitano i minuscoli villaggi disseminati lungo la strada. “Karibu mondele!”, Benvenuto europeo. La fatica dei commercianti ambulanti che percorrono il nostro stesso itinerario spingendo biciclette stracariche di sacchi d’olio di palma e maiali incazzati per lo spostamento imposto. Il sorriso. Il sorriso è la cosa che mi ha colpito ancora una volta. Capita di incrociare lo sguardo serio, oserei dire spento, di una donna con le foglie di manioca sulla testa. Un secondo dopo sollevo la mano per salutarla. Ed ecco la magia. Il suo viso si apre. Si apre, sì. Non c’è verbo migliore per descriverlo. Si apre in un bellissimo sorriso. Caldo. Vero. Illuminante. Un attimo prima mi dicevo: ecco, sta pensando a me come alla bianca ricca e presuntuosa. L’attimo dopo quella luce sul suo viso e la gioia nel mio petto.
Il paesaggio è cambiato adesso. Alti fili d’erba. Il cielo più vicino. Stiamo attraversando un tratto di savana. La stagione delle piogge ha permesso alle foglie di svilupparsi in altezza e non è difficile correre con la fantasia. Un leone acquattato dietro quel cespuglio, un elefante che si abbevera a quella pozza laggiù. In realtà sognare ad occhi aperti non è facile. Abbiamo bisogno di fare una sosta d’emergenza. La camera d’aria dello pneumatico anteriore destro si è bucata. Niente panico, ragazzi! La ruota di scorta è montata sul cofano proprio per queste occasioni, no? Può sembrare stupido ma per pura deformazione mentale all’italiana pensavo “non c’è due senza tre”. Ed ecco la terza. Siamo da poco sbucati fuori dalla deviazione ( 60 km che sostituiscono i dissestati 21) che è l’unica che ci permette di raggiungere la nostra meta senza (troppi) intoppi e che ci ha offerto anche la possibilità di vedere con i nostri occhi il centro dell’Africa. Si trova a Niangara ed è segnalato da una sorta di obelisco mezzo distrutto. Come molte delle costruzioni di questo villaggio fantasma. Attraversata da uno dei grandi affluenti del fiume Congo, l’Uélé,  Niangara conserva i resti della colonizzazione belga. Case dai tipici mattoncini rossi alternate alle capanne di fango ormai a me tanto famigliari. Un grande viale di alberi di mango. Alti, belli, slanciati. Come sentinelle al nostro passaggio. Uno di questi è sdraiato in mezzo alla strada. Tutto intorno si affannano uomini e donne armati di machete. La nostra auto ha bisogno di spazio per passare. E così su quelle braccia dalla pelle scura il sudore scivola in fretta per liberarci un varco. La gente ci guarda. Alcuni si limitano a salutarci. Altri ci propongono il matrimonio. Altri ancora restano in silenzio. Un silenzio che lascio spazio alla mia immaginazione. Cosa stai pensando ragazza dagli occhi neri e liquidi? Cosa pensi di questa tua sorella mondele che viene da una terra forse tanto , troppo ben stereotipata? Non lo so. Una voce attira il mio orecchio mentre riprendiamo il nostro viaggio : “ Demoiselle, ça c’est la souffrance du Congo!”. Ecco, sì. Avevo dimenticato. Forse me lo merito. In fondo in quel momento sono la rappresentante di quella categoria di uomini che da anni sfrutta questo continente. Perché non farle notare che qui la gente soffre? Tutto questo mi fa uno strano effetto. Da un lato sento che c’è la verità, dall’altro so che ogni luogo, ogni ambiente, ogni situazione presenta delle difficoltà. Difficoltà relative a quel contesto. Credere che si è sempre le vittime di una situazione può aiutare ma anche ferire.
Ferite. Sì. Sembrano proprio delle ferite quelle crepe nel terreno che si snoda davanti a noi. Dare una struttura uniforme a queste strade è un’impresa ardua. Rivoletti di fango solcano la superficie. La moto di Faustin slitta. Sarà meglio fermarci a mettere qualcosa sotto i denti. Non ci sono autogrill, solo una capanna con due panche. Non c’è un tabellone con il menù del giorno, solo una scelta: piatto unico, riso, fagioli, pondù, pollo.
Il paesaggio cambia di nuovo. Torniamo nella foresta. Proprio quella con gli alti alberi da cui pendono le liane. Proprio quella dove la pioggia breve della mattinata ha creato delle poltiglie di fango color terra di Siena. Proprio quella che mi ricorda tanto Jurassic Park. Ad un certo punto mancavano solo le strida di un T-Rex….ma la seconda buca alla camera d’aria non si è fatta attendere. Questo perché è entrata in gioco , per effetti della interculturalità incarnata dalla mia compagna italo-nicaraguense, la deformazione mentale del “non c’è tre senza quattro”. Sempre pneumatico anteriore destro. In pratica la nostra unica e ultima ruota di scorta. Che si fa adesso? A quanto pare il villaggio più vicino dista parecchi chilometri e gli unici che potrebbero darci una mano sono una cinquantina di operai locali impegnati nel caricare un gigantesco camion arancione ( un bestione che con le sue enormi ruote non fa che rendere ancora più impraticabili le strade già precarie) di plance di legna. Dico potrebbero perché in realtà hanno fretta e dopo averci lanciato qualche occhiata maliziosa ( due bianche in mezzo alla foresta…chissà come e cosa hanno pensato) montano su e ci lasciano lì. È quasi l’imbrunire. Non è certo consigliabile farsi sorprendere dalla notte in un punto tanto lontano da un centro abitato che seppur piccolo è sempre sinonimo di sicurezza. Relativa, ma sicurezza. Nessuno dà voce alle paure ma tutti e sei sappiamo che i gruppi ribelli di cui abbiamo tanto sentito parlare bazzicano da queste parti. I nostri fantastici 4 allora se ne inventano una alla congolese. Ci mettiamo a raccogliere foglie per creare una camera d’aria vegetale di modo che il nostro pneumatico possa fare qualche chilometro. Cosa pensavo in quei momenti? Che figata! Un’avventura! Ero lì ma mi sembrava di non esserci. Come sempre. Mai e poi mai mi sarei immaginata di vivere una cosa come questa. Quanto il mondo è vario? Se solo ci fermassimo ogni tanto a pensare che già fuori da casa nostra, e poi dalla nostra città, dal nostro Paese, dal nostro continente c’è tutto un altro modo di vivere, pensare, muoversi, agire, sarebbe tutto più entusiasmante e meno scontato. Non lo pensavo solo per me. Lo pensavo e lo penso anche per i congolesi che spesso, come tutti i popoli , parlano come se fossero i soli a vivere certe situazioni. Non dico che non sia bizzarro ritrovarsi a marciare a passo d’uomo su una jeep che non è più bianca ma ricoperta di schizzi al color di cioccolato con delle foglie stipate nello pneumatico ma chi, ovunque nel mondo, non si è trovato a gestire una serie di eventi bizzarri? Quel giorno è toccato a noi. Faustin e io siamo saliti in moto per cercare di raggiungere il villaggio che dista 30 minuti da Dungu, fiduciosi in un aiuto. Mentre lasciavo che il vento mi sferzasse le guance, guardavo i colori cambiare. Il sole di preparava a dormire e noi eravamo in mezzo al nulla. Un nulla che ad un certo punto si è riempito dei suoni della mia lingua. Il frate che ci ha accolti parlava italiano ma solo per dirci che non avevano mai avuto un auto! Dovevamo arrivare a Dungu se volevamo riuscire a trovare una ruota. Bene. Non potevamo certo lasciare gli altri nell’attesa, perciò siamo tornati indietro e ,caricata l’altra moto, abbiamo lasciato che Emmanuel e Celestin dormissero in un villaggetto dove avevano parcheggiato la nostra vettura con uno pneumatico pressoché inesistente ormai.
Non sono mai stata appassionata di viaggi in moto, ma chi decide quando una passione può nascere? Quella sera mentre sfrecciavamo verso la fantomatica città della salvezza, ero felice anche se avevo freddo. Pensieri disparati si rincorrevano nel tentativo di riscaldarmi. Ogni tanto il  piatto velluto di oscurità intorno a noi sembrava prendere vita. Ma cosa si muove lì? Uno, due uomini ( o donne?). Una bicicletta. Niente torcia. Solo gli occhi come fari nella notte. È abitudine. Sono nati in questo nero. Sanno camminare nel buio. Tornano a casa praticamente ad occhi chiusi. Ad un tratto l’aria cambia. Più calda. Un calore artificiale. Odori diversi. L’umido sentore della foresta lascia il posto al pastoso profumo d’olio di palma. Siamo arrivati. Ecco qualche fuocherello alla cui fiamma si stagliano pigramente le prime capanne. Dungu. Finalmente. La prima cosa da fare è cercare un posto dove dormire. Domattina ci si organizzerà per cercare una nuova gomma. Il piccolo seminario degli Agostiniani ci accoglie ( lascio libera interpretazione a questo verbo che include qualcosa che si chiama pagare)  e così, un po’ preoccupati per il resto della compagnia che non è con noi, ci addormentiamo felici di essere arrivati.
La nostra domenica a Dungu l’abbiamo passata da turiste, se così si può dire. Girare per le strade di un villaggio congolese che non è Rungu, è stato strano. Abbiamo cominciato a cercare tra la folla che lasciava la chiesa, quelli che per noi sono ormai più che conoscenti. “Ma quello lì non è Duabo?”. “Ehi, lì c’è la piccola bambina che va alla scuola materna!”. Solo miraggi. Solo somiglianze. Spalle simili. Capelli simili. Ma non sono loro. Non siamo a casa. E a confermarcelo è la presenza di gas di scarico nell’aria. Qui per la posizione particolarmente a rischio ( siamo nel cuore della cosiddetta zona rossa della RDC) ci sono decine di organismi internazionali che hanno la loro sede e che si muovono con  vetture e camion. Uno di questi passa stracarico di caschi blu. I militari delle Nazioni Unite. Tutti bianchi. Oh! Sono mesi che vivo circondata dalla pelle scura, rivedere dei visi chiari mi suona familiare ma allo stesso tempo bizzarro. Ci salutano come matti! Si creano buffi meccanismi quando sei straniero in una terra e incontri per caso qualcuno che viene dallo stesso continente che non conosci nemmeno o se girando per il mercato incroci gli occhi azzurri di una ragazza statunitense che ti fa un cenno. Come a dire: ti vedo. Ci si sbraccia per salutarsi. Per riconoscersi. Al contrario se ti capita di passeggiare nella tua cittadina di provincia, finisci per evitare di salutare perfino chi dovresti ! Non è forse così?
Tutto sommato Dungu non è tanto diverso dal nostro villaggio. I suoni. I colori. I profumi. I bambini che corrono a stringerti la mano. La gente con i suoi sguardi tra il “Eccone due altre. Che buffe che sono con quei capelli lisci” e il “Ma da dove saltate fuori?”. Qualcuno ci scambia per qualcun altro. Altri ci chiamano solo mondele. Un altro ancora grida “ Mbote Mariemoiselle” in un misto di non so che lingua. E noi? Sudiamo e continuiamo a mangiare la polvere. A sperare che i nostri eroi tornino a prenderci. Nell’attesa lo stomaco brontola. Compriamo due cucchiai di pasta di arachidi avvolta nelle foglie di banano e due bignè di manioca fritti nell’indigeribile ma gustoso olio di palma. Un po’ di fresco sotto la capanna. Il silenzio è rotto da una vettura. Sono loro! La squadra è di nuovo al completo. La nostra Land Rover è tornata in piena forma e ha già adempito a quella che è la sua missione: trasportare medicinali e materiale sanitario per l’ospedale. È per questo che siamo qui. Ci lasciamo guidare per le vie del villaggio. Passiamo sui famosi due ponti che permettono di valicare un altro affluente del fiume Congo, il Kibali. Il pomeriggio c’è grande frenesia dall’altra parte della riva. Il mercato attira la gente. Sapone, bibite, abiti, pile, benzina. Il caldo è pressoché insopportabile. Qualcuno ci chiama per nome. Ma come? Chi è? È una signora di Rungu! Come non possiamo non pensare   “ Come è piccolo il mondo!”. Chi se lo aspettava che avremmo davvero incontrato qualcuno che ci conosceva! Ed è come sentirsi a casa.
Giovani e non sono stipati davanti alla tv di un ristorante. Si disputa un grande match. La squadra di calcio della RDC gioca contro la Guinea Equatoriale. Penso proprio che il calcio sia un collante sociale, in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Non ci resta che tifare e gustarci un buon piatto di riso e pondù per poter poi andare a salutare questa giornata, pronti per il viaggio di ritorno dell’indomani.
È l’indomani, lunedì. Sono appena andati via due ispettori dell’ufficio immigrazioni. Hanno voluto sapere chi eravamo e cosa facevamo lì. Dare un’occhiata ai nostri documenti. Porco cane! Vuoi vedere che c’è qualcosa che non va? Il sudore mi imperlava la fronte mentre maledicevo la burocrazia mondiale. Troppe scene da film nella mia testa ( lo ammetto), ma alla fine non si è realizzato niente di quello che temevo. Pura formalità. Arrivederci e grazie. Buon soggiorno e buon rientro. A proposito di rientro. È arrivato il momento di caricare con attenzione e studiati calcoli tutto il nostro prezioso carico. Ci diamo da fare a svuotare , riempire , scocciare, imballare, legare, incastrare, montare, assicurare, stipare, equilibrare. Il sole picchia già alto. L’auto è pronta. I posti liberi per noi questa volta non ci sono. Il ritorno sarà in moto. Indossiamo i nostri giubbini da combattimento e ci accomodiamo nello spazio accuratamente lasciato libero tra lo chauffeur e il grosso sacco che c’è su ognuna della due moto.  Ecco si, diciamo pure che “accomodarsi” non è forse il termine più adatto a quella che è stata la nostra sistemazione. Ogni sobbalzo uno sbilanciamento ora a destra, ora a sinistra. Una testata al casco di Celestin che poveretto doveva districarsi tra il mio peso e il fango sotto le ruote. Ma prima di arrivare a questo non posso dimenticare il cuore che ha rischiato di venire fuori quando per passare su un buco in mezzo alla strada, la nostra jeep ha slittato sulle plance messe a mo di passerella. Un attimo. No. Non ha precisamente slittato, è pericolosamente uscita dal binario di fortuna poggiando sulla carrozzeria. Se non fosse stato per la prontezza di riflessi di Dido, non so quando e se avremmo ripreso il nostro già posticipato ritorno, anche a causa di un piccolo posto di blocco che abbiamo superato fornendo tutte le carte in regola e allungando qualche franco (…).
Ovviamente come già per l’andata, le avventure non si sono fatte attendere. Tutte da un’altra prospettiva questa volta. La prospettiva delle motocicliste. Chilometri di strade fatte di fango. Fango di quello che sembra prendere vita e risucchiare le ruote. E ti porta a scivolare. Fango che fa da letto a pozze d’acqua che formano veri e propri fiumi su quella che in altre parole è l’autostrada. Ci sono stati momenti in cui vedere il mio Celestin fare leva sulle sue ginocchia per farci uscire da quella fanghiglia micidiale, mi ha fatto davvero venire voglia di piangere. Allora smontavo e almeno cercavo di rendergli un tantino più leggera la moto. I miei piedi affondavano nella poltiglia. Ogni passo un risucchio. I passanti senza scarpe mi salutavano ma io ero troppo concentrata a non perdere l’equilibrio. Lanciavo uno sguardo un po’ più in avanti, un po’ più in là …ma quando finisce questo pantano??? La melma era tutta davanti a noi. Infinita. Ad un certo punto sembravamo dei birilli in groppa ad una moto. Siamo caduti due volte ! Ci siamo rialzati con il sorriso sulle labbra perché niente era rotto ( d’altronde a 10 km all’ora è un tantino difficile…) giusto in tempo per vedere la moto che veniva nel senso opposto cadere a sua volta. Ma tra una scivolata e l’altra si trova il tempo per parlare dell’Italia e del Congo, del cibo, dei viaggi in bicicletta fatti già su quella stessa strada, del percorso di studio che si vorrebbe intraprendere “ l’anno prossimo, perché in questo devo lavorare per mettere da parte i soldi”, delle tradizioni e della vita. Attraversiamo di nuovo la savana. Questa volta i lunghi fili d’erba mi sfiorano le guance e il vento soffia caldo. Entra con insistenza sotto il cappuccio e mi scompiglia i capelli. Un serpente nero e giallo sembra proprio insonnolito. Non gli va di lasciarci passare. Ogni tanto uno sguardo indietro per vedere come se la cava la nostra auto. Quello che per noi può essere un buon terreno per lei può rivelarsi fatale e costringerci ad un altro rallentamento. Le mie gambe sono un grovigli di crampi. In alcuni momenti vorrei veramente scendere. Ma poi incrocio gli occhi del commerciante ambulante che va lì, da dove noi veniamo e vedo lo sforzo nei muscoli tesi delle sue braccia, le infradito infilate nel retro degli stivali, la maglietta stracciata. Allora stringo i denti e provo un pizzico di vergogna. Cosa penseranno? Ecco la bianca che vive l’avventura, mentre per noi questa è la quotidianità. Beh , in parte è vero. Come è anche vero che non mollo. Che ci sono e riesco a vedere anche a come spesso ci si lascia andare di fronte a cose più grandi di noi, nascondendosi dietro un vittimismo che alla fine riconosco come frutto di una serie naturale di calcoli alla “2+2=4”. Questo è un meccanismo che ci rende tutti uguali. Nei luoghi e nel tempo.
La luna ha già bussato alla porta del cielo perché la lasci entrare perciò, dopo esserci dissetati con delle arance acquistate strada facendo, decidiamo di passare la notte a Niangara. Due bambini si sono fermati un minuto a giocare con me. Mi hanno chiamata. Sventolo la mano e ricambiano. Sono lontani una cinquantina di metri. Muovo un passo verso di loro. Scappano via e si nascondono dietro il muro. Sorrido. Una testolina sporge e mi fa cenno di avvicinarmi. È solo una provocazione perché appena mi muovo scompare ancora. Non è la prima volta che mi succede. Da lontano sono così spavaldi e salutano la “bianca” senza timore, ma appena accenno un avvicinamento…puff! La spavalderia lascia il posto alla soggezione e il coraggio svanisce…!
 Questa volta  ad ospitarci sono i preti comboniani. Il loro convento non è certo una reggia, ma l’accoglienza e la compagnia sono gli arredi migliori per sentirci a nostro agio. Una “doccia” veloce, un pollo che è passato sotto i miei occhi direttamente dal cortile alla padella, quattro chiacchiere, una birra a metà, un materasso infossato, il silenzio della notte.
L’indomani abbiamo anche il tempo per una breve passeggiata nell’aria mattutina. I ragazzi che vanno a scuola. Ancora una volta il bianco e il blu, colori a noi tanto famigliari. Sono le divise. I sorrisi. La campana che segna l’inizio delle lezioni. I quaderni in bilico sulla testa. I bambini più grandi che prendono per mano i più piccoli. Ma di quanto saranno davvero più grandi? Due pollici? A volte anche meno. Mancano circa sei ore al nostro agognato rientro. Rimontare in sella alla moto ci fa avvertire i primi scricchiolii muscolari e ci ricorda per un attimo quello che è stato il nostro viaggio di ieri. Incredibile come riusciamo a dimenticare la fatica appena qualcosa d’altro ci distrae. Anche oggi non mancano gli intoppi. Per due volte i nostri fantastici 4 hanno dovuto creare a colpi di machete una strada alternativa per aggirare due grossi camion impantanati. Il secondo , in particolare, è veramente messo male. Tutti gli operai hanno perso la grinta. Cantano e ci guardano. Noi approfittiamo della sosta per sgranchirci le gambe e porci alcune domande su quello che vediamo. La foresta sembra ispirarci pensieri bizzarri.
Ormai manca poco. Celestin cronometra i chilometri. Conosce a menadito ogni capanna e ogni albero. Ma come fanno ad orientarsi? Un mistero per me. Sentimenti contrastanti mi animano. Da un lato sogno la doccia e casa mia, rivedere Rungu e le persone che adesso sono la mia famiglia; dall’altro mi dispiace smontare dalla moto, salutare il mio chauffeur, scendere con i piedi per terra e impedire al vento di sferzarmi il viso.
Siamo a casa adesso e come alla fine di ogni viaggio, il cuore mi batte forte. Chiudo gli occhi e penso che non c’è modo migliore di gustare il mondo in tutte le sue infinite sfaccettature  se non immergendosi in esso, senza se e senza ma, con il bello e il cattivo tempo, con la strada asfaltata e non, con le camere d’aria bucate e integre, con gli sguardi truci e i sorrisi, con gli acciacchi e senza. Mi volto indietro, guardo il cammino che ho appena concluso e canticchio….. “ Siiiii, viaggiareeee! Nanananananana”.
http://www.youtube.com/watch?v=fSDNJzxuVaw





mercoledì 29 agosto 2012

ESTATE



Il ritmo martellante della pioggia che questa notte ha fatto da colonna sonora ai sogni della gente di Rungu cadendo  sulle capanne, sugli alberi e sulla terra, è stato sostituito dal dolce canto degli uccellini tessitori.
Socchiudo gli occhi. Questa luce mi acceca. Sembra che l’acqua abbia lavato e lucidato tutti i colori che brillano in tutta la loro vivacità. Il verde dei grandi alberi, il rosso della polvere, il giallo del sole che riluce, perfino il profumo della brezza calda sembra visibile. Mi passa tra i capelli e mi riporta alla memoria un’altra terra, la mia.

È stata un’estate diversa questa. Niente mare. Niente scarpe da vendere, né clienti da accontentare. Niente grappoli d’uva violacea e fichi d’India dai colori sgargianti. Nessun falò sulla spiaggia. Nessun giro fra le bancarelle dei mercatini. Nessun interludio in una terra magica come l’Albania.
È stata un’estate ricca di emozioni. È stata un’estate in cui ho messo in saccoccia un mucchio di nuove esperienze ed ho imparato una diversa sfaccettatura di significato di tanti verbi. 

CONOSCERE tanta gente.
TRADURRE canzoni e filastrocche.
APPRENDERE come la morte può essere subdola ma al contempo prevedibile.
PESARE chili e chili di carne di maiale e pesce secco salato.
SOPPORTARE il prurito dovuto a 3 grosse punture d’insetto.
IMPARARE  a dire cose che non avevo mai detto.
CERCARE  di far ridere con una battuta in una lingua mista 100 insegnanti venuti per la formazione.
INGOIARE il disprezzo che ho sentito in alcuni sguardi.
FOTOGRAFARE la pelle di un lungo serpente che ho trovato sulla mia strada.
PROVARE la delusione per il mancato arrivo di una persona tanto attesa.
GIOCARE con le bolle di sapone.
TRATTENERE le lacrime davanti ai ringraziamenti  e ai sorrisi.
ABBASSARE le spalle, impotente di fronte ad un virus dilagante.
SORRIDERE emozionata nell’aprire un pacco inviatomi dalla mia famiglia e a leggere il nome della mia città su un pacco di “frise”.
COSTRUIRE cubi di carta.
COMINCIARE  a capire quanto una colonizzazione prima e una dittatura poi possano marchiare indelebilmente un Paese.
SENTIRMI dire cose che non avrei mai immaginato di meritare.
PASSEGGIARE con il cuore che batte all’impazzata nel petto.
VEDERE con profonda tristezza una bambina nascondersi spaventata da quell’uomo bianco di cui le cantano come a me cantavano “la daremo all’uomo nero!”
PENSARE a chi non è con me anche se vorrei tanto che ci fosse.
ABBRACCIARE chi invece c’è ed è pronto a ricambiare il mio sguardo.
GUSTARE dopo mesi e con un piacere tutto nuovo la crema al cioccolato.
PIANTARE cipolle sotto il cielo africano.
RICORDARE con affetto l’esperienza di un anno fa.

VIVERE senza troppe pretese ogni singolo giorno con la certezza di esserci in mezzo con tutta me stessa.





lunedì 27 agosto 2012

DI TUTTI E DI NESSUNO


È domenica. La chiesa è piena di colori, di odori, di suoni. Fa caldo. Il sole è già alto nel cielo. Siedo tra la gente. Lascio che la mia mani dalla pelle chiara stringano nel segno della pace quelle cioccolatose del mio vicino.
Un bimbetto discende la navata. Dove va così deciso? Si ferma in direzione della panca dove sono seduta io. Si fa spazio tra le gambe dei miei vicini e si accoccola sulle mie. Senza dire una parola. È sudato. Mi si stringe addosso. Lo tengo stretto. Si addormenta. La donna che è alla mia sinistra gli asciuga la fronte. Mi sento come una delle tante mamme che durante la messa prende con sé il bimbo di un’altra. Quando lui ha fame lo passa a quella seduta dietro che lo allatta coprendosi con dignitoso pudore. I bimbi sono di tutti. Oserei dire di tutti e di nessuno. A volte. Una volta ho incrociato un microscopico ometto che camminava lungo la strada solo. Piangeva  ed ad intervalli si accovacciava a terra. Scottava. Aveva la febbre alta. Torna a casa da scuola. Troverà qualcuno  che si occuperà  di lui? Fratelli, parenti saranno ai campi, torneranno nel tardo pomeriggio e prepareranno il riso con le foglie di manioca. Un menù fisso che comporta dei problemi legati alla malnutrizione. È questo che induce tanti piccoli a recarsi al centro nutrizionale dell’ospedale.
Occhi spenti. Sorriso inesistente. Pianto isterico. Quando ci sono stata la prima volta non sapevo cosa fare. Vedere questi bimbetti sudici, magri, inattivi mi ha stretto il cuore. Ma sono stati loro stessi a coinvolgermi. A tendermi le manine e a dirmi cose incomprensibili. Adesso quando li guardo e conosco la loro storia leggo non solo la fame del corpo ma anche quella dello spirito. Spero che il nostro sorriso e i nostri giochi in lingua mista calmino il loro appettito e la loro sete d’affetto.

DI TUTTI E DI NESSUNO 24 GIUGNO 2012


È domenica. La chiesa è piena di colori, di odori, di suoni. Fa caldo. Il sole è già alto nel cielo. Siedo tra la gente. Lascio che la mia mani dalla pelle chiara stringano nel segno della pace quelle cioccolatose del mio vicino.
Un bimbetto discende la navata. Dove va così deciso? Si ferma in direzione della panca dove sono seduta io. Si fa spazio tra le gambe dei miei vicini e si accoccola sulle mie. Senza dire una parola. È sudato. Mi si stringe addosso. Lo tengo stretto. Si addormenta. La donna che è alla mia sinistra gli asciuga la fronte. Mi sento come una delle tante mamme che durante la messa prende con sé il bimbo di un’altra. Quando lui ha fame lo passa a quella seduta dietro che lo allatta coprendosi con dignitoso pudore. I bimbi sono di tutti. Oserei dire di tutti e di nessuno. A volte. Una volta ho incrociato un microscopico ometto che camminava lungo la strada solo. Piangeva  ed ad intervalli si accovacciava a terra. Scottava. Aveva la febbre alta. Torna a casa da scuola. Troverà qualcuno  che si occuperà  di lui? Fratelli, parenti saranno ai campi, torneranno nel tardo pomeriggio e prepareranno il riso con le foglie di manioca. Un menù fisso che comporta dei problemi legati alla malnutrizione. È questo che induce tanti piccoli a recarsi al centro nutrizionale dell’ospedale.
Occhi spenti. Sorriso inesistente. Pianto isterico. Quando ci sono stata la prima volta non sapevo cosa fare. Vedere questi bimbetti sudici, magri, inattivi mi ha stretto il cuore. Ma sono stati loro stessi a coinvolgermi. A tendermi le manine e a dirmi cose incomprensibili. Adesso quando li guardo e conosco la loro storia leggo non solo la fame del corpo ma anche quella dello spirito. Spero che il nostro sorriso e i nostri giochi in lingua mista calmino il loro appettito e la loro sete d’affetto.

lunedì 25 giugno 2012


                                                                                            Rungu, 3 maggio 2012
UNA FITTA DI FELICITA’
Guardo la carta geografica che è appesa nell’aula dove in compagnia di 15 ragazzini esuberanti passo il mio pomeriggio colorando e esercitandoci nella scrittura . Il mio sguardo percorre da nord a sud e da est ed ovest il grande pezzo di continente africano che prende il nome di Repubblica democratica del Congo. E’ qui che sono da 2 mesi e mezzo . È qui che come sospesa in un dimensione irreale vivo isolata. Nel cuore della foresta tropicale. Un enorme polmone che inspira ed espira sollevandomi con sé in un turbinio di emozioni.
Eppure lontana migliaia di km da casa, non mi sento sperduta. La luce del sole galleggia nell’aria mentre con scrupolosa attenzione zigzagando fra pozzanghere d’acqua in sella alla nostra moto torniamo a Rungu, o meglio, al “mio villaggio, a casa”, come ormai ho preso l’abitudine di dire. Siedo rigida. Nello zaino ho 10 uova. Non posso permettere che tutti gli scossoni ne facciano una frittata! Sono il dono degli insegnanti della scuola di un villaggio nella foresta. Per arrivarci abbiamo superato gruppi di alunni sorridenti con il libri in testa e un mango in mano. Abbiamo ricevuto saluti calorosi ad ogni passaggio. Anche da chi spingeva una bicicletta stracarica di sacchi. Anche da chi trasportava lunghi rami di bambù tenendoli in bilico sulla testa.  Ma quanti km al giorno sono capaci di percorrere? Ogni volta me ne stupisco. Non mi ci sono ancora abituata. E nei tratti disabitati, mentre sfrecciavo in “strade” incredibilmente dissestate fiancheggiate da alberi altissimi, la mia mente correva lontana. Come si può vivere in luoghi così lontani da qualsiasi centro abitato? Come si può restare nella propria capanna senza tremare mentre fuori la forza del vento e della pioggia imperversano? Come si può riuscire a curare una febbre se l’ospedale più vicino  è praticamente impossibile da raggiungere? Non so cosa rispondere . Che strana la vita. Che strano l’uomo. E che strana io. Le lacrime mi hanno riempito gli occhi e il cuore batteva di esengo  ( gioia). Vedersi accogliere con gridolini e sorrisi da tutti i bambini che appena udivano le moto e vedevano i nostri volti così chiari lasciavano le aule per correrci incontro! Mi sono seduta su quei pezzi di tronchi che sono i loro banchi, ho respirato la polvere del gesso, ho cantato le filastrocche, ho letto la fatica nello sguardo degli insegnanti, una fatica che però non vince sul coraggio di andare avanti nonostante le difficoltà. 
È inevitabile non pensare alla mia di scuola. Un luogo dove ho passato la maggior parte della mia vita fino ad oggi. E da dove la stragrande maggioranza di noi ha sentito il bisogno di fuggire. Qui è tutto l’opposto. Per poterci andare si lavora duro. Si vendono caramelle, bastoni di manioca, manghi. Si cerca di convincere i propri genitori dicendo che “ al fiume a prendere l’acqua ci vado il pomeriggio, lo prometto! Ma questa mattina lasciami andare a scuola per favore!”
Siamo in 100 accalcati nella cappella che funge da salle de cinema. Non so quanti gradi ci siano. Non mi importa. Ascolto e osservo. Gridolini di stupore ed entusiasmo. Sorrisi ed occhi spalancati. Su un telo attaccato al muro scorrono le immagini. Mostriamo gli animali selvaggi dell’Africa. Quante volte ho visto documentari di questo tipo a casa mia? Così tante che non sono più capace di provare il gusto della sorpresa. Ma oggi l’ho ritrovato nei loro occhi scuri e così incredibilmente luminosi. Mi meraviglio sempre di come sia possibile scorgere  tanta luce in quelle iridi tanto nere! Basta così poco per raggiungere la felicità ma è solo una goccia nell’oceano. Ogni mano stretta. Ogni abbraccio sono una fitta di felicità.

venerdì 30 marzo 2012

BELLO BELLO BELLO!!!

Non posso dire di non aver provato una sauna! Sono le 21:05 di questo venerdì e ho la maglietta che sembra una seconda pelle. I grilli onnipresenti. Mi siedo e penso che sono felice. Ho passato una bellissima giornata! Questa mattina ho mosso i miei primi passi da sola davvero. Sono stata inviata come rappresentante alla proclamazione dei risultati scolastici del trimestre dei ragazzi della scuola dei sordi muti di Rungu. Ci ho messo un po’ a trovare la strada. Pensavo di aver memorizzato bene il percorso tra la fila di capanne…ma…devo aver avuto una faccia a punto interrogativo se un ragazzo mi ha detto che se cercavo la scuola dovevo tornare indietro..!!Alla fine sono arrivata.Oh! Che accoglienza ragazzi! Non è la prima volta che passo del tempo con loro ed ogni volta il cuore mi batte forte! In una terra dove la disabilità fisica può essere causa di terribili marginalità legate a particolari credenze, vedere come gli insegnanti sorridono e i ragazzi si impegnano ad eseguire balletti scanditi da un piccolo tam tam( il tamburo tipico) seguendo una musica che non possono sentire…e tutto questo oggi solo per me…bè !! Che tremenda emozione!! Fortuna che sono riuscita a racimolare 4-5 frasi per dire grazie in un misto di francese e lingala! Che ridicola scenetta! Immaginatevi! 
Ho ripreso la mia strada e mi sono diretta verso un’altra costruzione di mattoni rossi. Le porte chiuse, le finestre coperte. Silenzio! Proiettano un cartone all’Ecole maternelle! Entro e le maestre mi offrono una sediolina. No, grazie! Acciuffo un bimbetto e prendo il suo posto sedendomelo sulle gambe. D’accordo. Dopo 5 secondi mi accorgo che ho azzardato un po’ troppo. Un altro mi si avvicina. E allora libero un ginocchio mentre prendo coscienza dei gradi centigradi e del sole che picchia fuori. Ma si! Mi dico che adesso ci sono e adesso posso sentire questo caldo asfissiante provocato da AFFETTO! Meglio di così?
A proiezione finita ( o meglio interrotta  forzatamente perché i OUI al “Ancora?” non finivano mai..) mi sono alzata per poi sentirmi afferrare, accarezzare, sfiorare, chiamare, tirare da tante manine scure e non ho più resistito..ne ho preso uno in braccio! È stato come aprire una diga! Mi si sono avvinghiati tutti addosso! Me li trovavo dappertutto! Ohhhhhhhhhhhh!!! Bello bello bello!!


domenica 25 marzo 2012

MAGIA

Il sole si intravede tra i rami frondosi dell’albero che ci fa da ombra. I capelli mi si appiccicano sulla fronte. Gli occhi mi bruciano per il calore. Ho tre piccoli corpicini stretti a me. Qui si fa a gara a chi per primo riesce a guadagnarsi un posticino sulle gambe della demoiselle… se avessi più gambe e più braccia mi trasformerei volentieri in un mega divano! Con le dita seguono i contorni delle vene dei miei polsi che spiccano verdi sulla pelle così chiara. Ridacchiano fra di loro e mi guardano sorridenti. Intorno a me tanti giovani impegnati a divertirsi superando prove di abilità fisica e intellettiva. Basta poco per creare il gusto per una sana competizione! Festeggiamo una giornata dedicata ai ragazzi. Nonostante quella che per me è un’ ora in cui sarebbe improponibile assistere a qualsiasi cosa che non sia in acqua o in un frigo, mi ritrovo ad assaporare il gusto dello stare insieme senza pensieri. Vedere la danza tradizionale mi colpisce particolarmente. Abiti fatti di corteccia d’albero, accessori di pelle di scimmia, i tipici strumenti a percussione in legno naturale e il ritmo tribale che attraversa il suolo e riecheggia fino ad entrarmi nell’anima…  E’ impossibile non ricorrere agli stereotipi o alla retorica. Mi trovo qui e adesso. E posso dire con la mia bocca, vedere con i miei occhi, toccare con le mie mani, respirare la polvere rossa, ascoltare con il mio cuore la magia del Congo, questa terra figlia dell’Africa che mi ha aperto le sue braccia e mi accoglie con gioia. Grazie!

domenica 18 marzo 2012

DAVVERO

Avete presente una miriade di insetti dalle ali trasparenti e dal corpo nero che volano intorno ad una fonte di luce come impazzite? Bene. Immaginate poi una divertente caccia notturna muniti di secchielli, bastoncini e retini. Benvenuti a Rungu! La caccia alle termiti è aperta!!! Ieri sera, superata l’avversione iniziale per queste creature poco carine per i miei gusti, ho potuto apprezzare i cori entusiasti di bambini e adulti intenti nella raccolta! Qui sono una prelibatezza e si attende con ansia la pioggia che dà il via alle danze! Praticamente il sabato sera è passato così per loro. Altro che le luci di una discoteca!
Ed è passato anche il mio compleanno. In un altro continente. A migliaia di chilometri da casa. Un mazzolino di fiori freschi vicino al mio piatto a colazione, un “tanti auguri a te” cantato in tre lingue, una passeggiata piena di saluti, l’affetto di gente che conosco da poco ma che mi dimostra ogni giorno quanto siano felici di avermi qui.
E chi si immaginava che un giorno avrei vissuto sul serio tutto questo? 
 Stamattina ero in chiesa e ad un certo punto è arrivato un bambino che era seduto da tutt’altra parte. Con la manina tesa. Solo per stringere la mia. Sto imparando ad amare ogni gesto. Anche il più piccolo. Senza farmi troppe domande. A rendermi conto che sono io questa che è qui. A capire che ci sono DAVVERO.



lunedì 12 marzo 2012

GLI OCCHIALI 12 marzo 2012

Sono passate due settimane dal mio arrivo a Rungu. E quasi come un tacito anniversario da ricordare, questa mattina una mamma del villaggio è seduta fuori nella frescura delle prime ore, ad aspettarci. Aspetta noi. Possibile? Si. Ci ha portato un dono. Una grossa ananas. L’ha tirata fuori dalla sua borsa di rafia intrecciata e con uno splendido sorriso ha teso le sue mani colme del frutto maturo. Uno stupore misto a gratitudine mi ha attraversato come una scossa. È la prima volta che ricevo un regalo così. Un regalo semplice. Dalle mani di una donna che a malapena ricorda il mio nome. Da una donna che avrà lavorato duro per procurarsi il dono per ME. Da una mamma che ha tolto un frutto ai suoi figli. Le ho detto semplicemente grazie nella sua lingua. Ma basterà? Mi chiedevo. Ho chiesto. Mi hanno detto di si sorridendo, stupiti di questa mia domanda. Si. È così che si ringrazia qui. Cosa altro vuoi fare? E che ne so! L’ho vista riprendere la borsa, adesso vuota, lanciarmi un ultimo saluto e tornare alla sua giornata. Sembrava felice. Io lo ero.  
Le donne qui hanno sempre tanto da fare. Le vedi aggirarsi con sulla schiena e in equilibrio sulla testa di tutto. Ceste di legna, vasche d’acqua, verdura, bambini, abiti, pollame. Questa loro incredibile capacità mi lascia stupita ogni volta. Incredibile, mi dico! Ma come fanno? Durante la manifestazione per la festa della donna, in cui hanno sfilato tutte le categorie femminili del villaggio, dalle più piccole alle più grandi, hanno anche fatto delle mini gare per mettere in luce le loro  capacità. Velocità nell’accendere il fuoco, nel lavare e vestire il proprio figlio, e appunto trasportare in equilibrio sulla testa nuda una bottiglia di vetro vuota!! Oh, che spettacolo!! Ero estasiata.  Partecipare a questo evento mi ha fatto uno strano effetto. A parte l’imbarazzo di trovarmi seduta tra le autorità sotto un baldacchino di bambù per proteggerci dal caldo equatoriale mentre tutti gli altri erano a sciogliersi al calore del sole, ho provato una forte emozione nel vedere la determinazione di queste donne che lottano per essere considerate non come un oggetto. Tanti gli auguri ricevuti dagli uomini. Eppure a lavorare duramente io ho visto solo donne. Non un uomo che si muovesse anche solo per spegnere i fuocherelli dopo la gara. Qui la famiglia è patriarcale ma di fatto molto della gestione famigliare è sulle spalle della donna. Bè, posso dire che in questo caso, tutto il mondo è paese. Ovunque si lotta per la parità dei sessi. Qui fa ancora più effetto, perché per i miei occhi da europea, fa strano assistere ad una giornata di festa a cui partecipano bambini malnutriti e vestiti di stracci. I miei occhi sarebbero portati a vedere altre priorità che una festa. Ma poi mi sono detta che la vita è anche questo. Il gusto di divertirsi e di stare insieme. Di lottare per ideali che trascendano il raggiungimento immediato di un miglioramento. Ho cercato di togliermi di dosso questi occhiali da “donna del primo mondo” e mi sono lasciata travolgere dall’emozione di veder sfilare cantando il proprio inno nazionale i bimbi, le donne sfollate in fuga  (e scalze per ricordarlo) dal territorio del nord,  la recitazione di una poesia sull’uguaglianza fra i popoli.
Cercare di guardare questa realtà senza quei famosi occhiali è difficile. Oggi, per esempio, siamo stati a visitare una scuola elementare nel bel mezzo della foresta. Guardavo le aule. Le pareti sono pezzi di legna uniti tra loro da mura di argilla rossa. I tetti sono costituiti da una fitta trama di pali di bambù ricoperti di foglie di palma. I banchi non sempre ci sono. E sono ancora una volta pezzi di legna poggiati su pali piantati nel terreno. Ho visto tre insegnanti per quattro classi. 50 alunni senza quaderni dove prendere appunti. La mancanza di tutto. Poi ho tolto gli occhiali. Ero sempre lì. E ho visto delle aule in mezzo alla natura incontaminata. Ho conosciuto tre insegnanti che,senza ricevere uno stipendio fisso, sono ogni mattina lì a fare lezione. Ho incontrato gli sguardi di 50 alunni desiderosi di imparare senza quaderni ma con l’entusiasmo della curiosità. Ho deciso. Senza l’uso di quelle lenti europee è tutto molto più ricco di senso. Il senso dell’essenziale! 
L’essenziale. Quello che ci è bastato sabato pomeriggio per cominciare a giocare con i bambini incontrati durante la passeggiata. Non sapevamo come farci capire. Ma chissà come ci siamo riuscite! E alla fine erano loro a far cantare e ballare noi!
Ho messo via questi occhiali. Chiusi nel cassetto. Lo sguardo è più limpido. Il cielo più stellato!
Buonanotte…

giovedì 8 marzo 2012

DENTRO 7 febbraio 2012

Sono appena tornata dalla bottega del sarto. Sono le 22:00. Qui a Rungu c’è ancora chi lavora. Fuori è buio pesto. Nella bottega anche. A parte la luce circoscritta di due torce. Una illumina la macchina da cucire del maestro, l’altra permette all’apprendista  di lavorare a mano. Mi guardo intorno, per quel poco che riesco a scorgere. Stoffe sgargianti, fili colorati, mani all’opera, clienti in attesa che chiacchierano. Non si vede nulla al di là del mio naso. Penso che si incredibile! Come possono loro, mi dico, intessere le trame della loro vita così difficile, con la stessa semplicità con cui ricamano al buio gli abiti della festa? Come possiamo noi, mi dico, lamentarci se per un’ora del pomeriggio ci hanno staccato la corrente elettrica per dei lavori nel quartiere?
Non lo so. Penso solo a custodire tutte queste emozioni. Nello stesso momento in cui lo faccio il mio pensiero corre a chi è lontano. A chi non può afferrare questa estrema semplicità racchiusa in un angolo di foresta equatoriale. A chi non può sentire la brezza calda della sera congolese sulle guance. A chi non può percorrere 5 km di strada polverosa e rossa per raggiungere un panorama mozzafiato, come può essere un fiume dalle rive ricche e rigogliose. 
A chi non può vedere minuscoli bambini giocare in quelle acque verdastre  su piroghe di legno di palma. A chi non può vedersi affiancare e sentirsi prendere la mano dallo stesso bimbetto che alla via crucis della scorsa settimana aveva fatto di tutto per stringertela. A chi non può salutare la gente sulla soglia della propria capanna e sentirsi augurare una buona giornata. A chi non può incrociare donne e bambini che trasportano in equilibrio sulla testa ceste di legna o vasche colme d’acqua. A chi, in un’aula piena di crepe, non può vedersi circondare da 50 bambini senza scarpe ma con gli occhi curiosi, il sorriso luminoso e le manine tese per sfiorare le tue braccia bianche e vedere se questo colore è cancellabile. A chi  non può assistere all’incredibile scenetta che ha come protagonisti tre bimbetti che si chiamano tra loro alla tua vista, si alzano in piedi, saltellano e aspettano, aspettano il momento esatto perché tu sia abbastanza vicina per sentirli dire in coro “Bonjour demoiselle!” con tutto il fiato che hanno in corpo. Ma penso anche a  me che ci sono e non sono ancora del tutto consapevole di esserci. Di essere qui e di vivere sulla mia pelle color del latte una fetta della vita  di chi ha invece quella di color cioccolato.
Sorrido ripensando a tutto. Spengo la mia torcia. Stendo le gambe. Tiro giù la zanzariera. Tendo l’orecchio: fuori c’è il canto dei grilli, dentro il canto del cuore.