Rungu, 3 maggio 2012
UNA FITTA DI FELICITA’
Guardo la carta geografica che è appesa nell’aula dove in
compagnia di 15 ragazzini esuberanti passo il mio pomeriggio colorando e
esercitandoci nella scrittura . Il mio sguardo percorre da nord a sud e da est
ed ovest il grande pezzo di continente africano che prende il nome di Repubblica
democratica del Congo. E’ qui che sono da 2 mesi e mezzo . È qui che come
sospesa in un dimensione irreale vivo isolata. Nel cuore della foresta
tropicale. Un enorme polmone che inspira ed espira sollevandomi con sé in un
turbinio di emozioni.
Eppure lontana migliaia di km da casa, non mi
sento sperduta. La luce del sole galleggia nell’aria mentre con scrupolosa
attenzione zigzagando fra pozzanghere d’acqua in sella alla nostra moto
torniamo a Rungu, o meglio, al “mio villaggio, a casa”, come ormai ho preso
l’abitudine di dire. Siedo rigida. Nello zaino ho 10 uova. Non posso permettere
che tutti gli scossoni ne facciano una frittata! Sono il dono degli insegnanti
della scuola di un villaggio nella foresta. Per arrivarci abbiamo superato
gruppi di alunni sorridenti con il libri in testa e un mango in mano. Abbiamo
ricevuto saluti calorosi ad ogni passaggio. Anche da chi spingeva una
bicicletta stracarica di sacchi. Anche da chi trasportava lunghi rami di bambù
tenendoli in bilico sulla testa. Ma quanti km al giorno sono capaci di
percorrere? Ogni volta me ne stupisco. Non mi ci sono ancora abituata. E nei
tratti disabitati, mentre sfrecciavo in “strade” incredibilmente dissestate
fiancheggiate da alberi altissimi, la mia mente correva lontana. Come si può
vivere in luoghi così lontani da qualsiasi centro abitato? Come si può restare
nella propria capanna senza tremare mentre fuori la forza del vento e della
pioggia imperversano? Come si può riuscire a curare una febbre se l’ospedale
più vicino è praticamente impossibile da
raggiungere? Non so cosa rispondere . Che strana la vita. Che strano l’uomo. E
che strana io. Le lacrime mi hanno riempito gli occhi e il cuore batteva di esengo ( gioia). Vedersi accogliere con gridolini e
sorrisi da tutti i bambini che appena udivano le moto e vedevano i nostri volti
così chiari lasciavano le aule per correrci incontro! Mi sono seduta su quei
pezzi di tronchi che sono i loro banchi, ho respirato la polvere del gesso, ho
cantato le filastrocche, ho letto la fatica nello sguardo degli insegnanti, una
fatica che però non vince sul coraggio di andare avanti nonostante le
difficoltà.
È inevitabile non pensare alla mia di scuola. Un
luogo dove ho passato la maggior parte della mia vita fino ad oggi. E da dove
la stragrande maggioranza di noi ha sentito il bisogno di fuggire. Qui è tutto
l’opposto. Per poterci andare si lavora duro. Si vendono caramelle, bastoni di
manioca, manghi. Si cerca di convincere i propri genitori dicendo che “ al
fiume a prendere l’acqua ci vado il pomeriggio, lo prometto! Ma questa mattina
lasciami andare a scuola per favore!”
Siamo in 100 accalcati nella cappella che funge da
salle de cinema. Non so quanti gradi ci siano. Non mi importa. Ascolto e
osservo. Gridolini di stupore ed entusiasmo. Sorrisi ed occhi spalancati. Su un
telo attaccato al muro scorrono le immagini. Mostriamo gli animali selvaggi
dell’Africa. Quante volte ho visto documentari di questo tipo a casa mia? Così
tante che non sono più capace di provare il gusto della sorpresa. Ma oggi l’ho
ritrovato nei loro occhi scuri e così incredibilmente luminosi. Mi meraviglio
sempre di come sia possibile scorgere
tanta luce in quelle iridi tanto nere! Basta così poco per raggiungere
la felicità ma è solo una goccia nell’oceano. Ogni mano stretta. Ogni abbraccio
sono una fitta di felicità.
Nessun commento:
Posta un commento