lunedì 25 giugno 2012


                                                                                            Rungu, 3 maggio 2012
UNA FITTA DI FELICITA’
Guardo la carta geografica che è appesa nell’aula dove in compagnia di 15 ragazzini esuberanti passo il mio pomeriggio colorando e esercitandoci nella scrittura . Il mio sguardo percorre da nord a sud e da est ed ovest il grande pezzo di continente africano che prende il nome di Repubblica democratica del Congo. E’ qui che sono da 2 mesi e mezzo . È qui che come sospesa in un dimensione irreale vivo isolata. Nel cuore della foresta tropicale. Un enorme polmone che inspira ed espira sollevandomi con sé in un turbinio di emozioni.
Eppure lontana migliaia di km da casa, non mi sento sperduta. La luce del sole galleggia nell’aria mentre con scrupolosa attenzione zigzagando fra pozzanghere d’acqua in sella alla nostra moto torniamo a Rungu, o meglio, al “mio villaggio, a casa”, come ormai ho preso l’abitudine di dire. Siedo rigida. Nello zaino ho 10 uova. Non posso permettere che tutti gli scossoni ne facciano una frittata! Sono il dono degli insegnanti della scuola di un villaggio nella foresta. Per arrivarci abbiamo superato gruppi di alunni sorridenti con il libri in testa e un mango in mano. Abbiamo ricevuto saluti calorosi ad ogni passaggio. Anche da chi spingeva una bicicletta stracarica di sacchi. Anche da chi trasportava lunghi rami di bambù tenendoli in bilico sulla testa.  Ma quanti km al giorno sono capaci di percorrere? Ogni volta me ne stupisco. Non mi ci sono ancora abituata. E nei tratti disabitati, mentre sfrecciavo in “strade” incredibilmente dissestate fiancheggiate da alberi altissimi, la mia mente correva lontana. Come si può vivere in luoghi così lontani da qualsiasi centro abitato? Come si può restare nella propria capanna senza tremare mentre fuori la forza del vento e della pioggia imperversano? Come si può riuscire a curare una febbre se l’ospedale più vicino  è praticamente impossibile da raggiungere? Non so cosa rispondere . Che strana la vita. Che strano l’uomo. E che strana io. Le lacrime mi hanno riempito gli occhi e il cuore batteva di esengo  ( gioia). Vedersi accogliere con gridolini e sorrisi da tutti i bambini che appena udivano le moto e vedevano i nostri volti così chiari lasciavano le aule per correrci incontro! Mi sono seduta su quei pezzi di tronchi che sono i loro banchi, ho respirato la polvere del gesso, ho cantato le filastrocche, ho letto la fatica nello sguardo degli insegnanti, una fatica che però non vince sul coraggio di andare avanti nonostante le difficoltà. 
È inevitabile non pensare alla mia di scuola. Un luogo dove ho passato la maggior parte della mia vita fino ad oggi. E da dove la stragrande maggioranza di noi ha sentito il bisogno di fuggire. Qui è tutto l’opposto. Per poterci andare si lavora duro. Si vendono caramelle, bastoni di manioca, manghi. Si cerca di convincere i propri genitori dicendo che “ al fiume a prendere l’acqua ci vado il pomeriggio, lo prometto! Ma questa mattina lasciami andare a scuola per favore!”
Siamo in 100 accalcati nella cappella che funge da salle de cinema. Non so quanti gradi ci siano. Non mi importa. Ascolto e osservo. Gridolini di stupore ed entusiasmo. Sorrisi ed occhi spalancati. Su un telo attaccato al muro scorrono le immagini. Mostriamo gli animali selvaggi dell’Africa. Quante volte ho visto documentari di questo tipo a casa mia? Così tante che non sono più capace di provare il gusto della sorpresa. Ma oggi l’ho ritrovato nei loro occhi scuri e così incredibilmente luminosi. Mi meraviglio sempre di come sia possibile scorgere  tanta luce in quelle iridi tanto nere! Basta così poco per raggiungere la felicità ma è solo una goccia nell’oceano. Ogni mano stretta. Ogni abbraccio sono una fitta di felicità.

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