mercoledì 5 dicembre 2012

MENTRE FUORI TUTTO SCORRE


Diversi “ ciao” raggiungono le mie orecchie. È il saluto dei bimbi che abitano lungo il sentiero che prendo ogni mattina per andare alla scuola elementare. Loro non sono alunni. Indossano stracci e un caldo sorriso. Adesso che hanno imparato questa parola nuova cominciano a cantarla appena scorgono i colori della mia maglietta.

Le maman mi danno il benvenuto “ Okomi? ( Sei arrivata?)”. poco più avanti il piccolo Alexis mi corre incontro. Le sue gambette magre gli impediscono un passo veloce ma a me sembra che voli. Ride felice mentre lo sollevo. Mi sussurra sottovoce le risposte alle mie domande. Vuole venire con me. “ Tokende ( andiamo)” , mi dice. Il suo papà non mi dà il permesso per oggi. Prima vuole comprargli un paio nuovo di sandaletti e lavargli la camiciola. Mi si spappola il cuore quando Alexis con la manina e con la vocina piccola piccola mi saluta. 

Molte delle capanne sono già vuote. La gente è partita nei campi per andare a prendere le foglie di manioca e le banane. Per preparare il pranzo giornaliero. Una signora riempie la vasca per andare a lavare i vestiti al ruscello. Un uomo si arma di machete e parte a tagliare la legna per il fuoco.

Prima ancora di entrare in classe sento il coro dei bambini che ripetono le nozioni in una lingua che non è la loro.  Ma quella dei colonizzatori. Quella ufficiale. Il francese.

Ogni volta che arrivo nello spiazzo antistante la struttura, mi piace soffermarmi ad immaginare. È uno dei posti più “aperti” del villaggio. La foresta è onnipresente ma mi guarda da lontano. Il cielo, illuminato da un sole cocente, si estende in tutta la sua bellezza celeste. E le soffici nuvole bianche lo rendono veramente suggestivo. Il vento caldo soffia libero da tutti i punti cardinali. Porta con sé l’odore dell’estate. Parlavo di immaginare, infatti. Immagino di fronte a me una distesa d’acqua marina. Fresca, dalla superficie leggermente increspata. La sabbia fine sotto i piedi. E per un attimo mi sembra di essere a casa. Mi capita spesso di sentirmici davvero.

Busso alla porta aperta e 49 bambini sorridenti mi danno il benvenuto. Con lo sguardo cerco di salutarli ad uno ad uno. Qualcuno mi sfugge. I suoi occhi sono chiusi, la testa posata sul banco. La maestra, nel suo abito congolese dai colori sì un po’ sgargianti, ma per me tanto elegante nelle linee, mi dice che è ammalato. Gli tocco la fronte. Brucia. E non è un eufemismo. Non è certo un caso isolato. Anche nell’altra prima ( 50 alunni) c’è chi ha la stessa temperatura. Chi si precipita fuori per vomitare. Chi piange e si tiene il ventre gonfio. L’umidità dell’Equatore, la monotonia del cibo, la trascuratezza nel curarsi. Questi e altri fattori la causa di malanni diffusi. Oh, ma questi bambini mi stupiscono sempre. Il giorno dopo li ritrovo in piena forma. Pieni di grinta e capaci di tutto. A volte, però, qualcuno non torna più.

Prendo il malloppo dei quaderni e vado a sedermi in fondo. Oggi scriveranno la consonante n con tutte le vocali. Non hanno libri da portare a casa nello zaino. La maggioranza lo zaino non ce l’ha. Chi lo possiede lo lascia sulle spalle per tutta la giornata. Non se ne separa mai. Una volta uno di loro ci aveva perfino infilato sopra la felpa! Lo stesso vale per la matita. Ci giocano, la usano come “ picchia compagno”, la mordicchiano ma non la mollano. La stringono in pugno come il bene più prezioso.

Non ho mai visto in una scuola ( è l’alunna che sono stata che parla) tanto entusiasmo e tanta voglia di fare esercizi o andare alla lavagna. Il ditino sempre alto e lo slancio incontenibile per farsi scegliere. Per essere il fortunato che andrà alla lavagna. È il turno di Christine adesso. In una mano il gesso, nell’altra il righello per tracciare il quadrato. Ad un certo punto prende dalla cattedra un pezzo di spugna e cancella. E adesso? Sono tre gli oggetti e le mani due. Ci pensa su un attimo. La decisione è stata presa. Posiziona la spugna in perfetto equilibrio al centro della testa. E riprende là dove si era interrotta. Sorrido estasiata. D’abitudine la testa è considerata un mezzo di trasporto. Che siano ceste di foglie di manioca o vasche di abiti lavati. Libri o fasci di paglia. La testa trasporta tutto. Anche la spugna per cancellare la lavagna!

La maestra si assenta un momento. Sono sola. Mi fissano con una timidezza che dura solo qualche secondo. Basta che il primo cominci a infastidire il secondo che il disordine prende il sopravvento. Controllarli è impossibile. Sedi una rissa a suon di sandali a destra e devi correre a capire perché piange quello a sinistra mentre un altro è corso a rubare la matita a chi è seduto avanti. Come faccio a fermarli?!?

Parlo in lingala ma questo non fa altro che provocare risatine ( un giorno ho dato il permesso a Dominique per uscire e andare in bagno. Questo almeno ero quello che io credevo mi avesse chiesto. In realtà è tornato a casa e la sorella lo ha riportato indietro!!!).


Passo al francese e perché non sbeffeggiare la demoiselle con le imitazioni??

L’italiano è l’ultima spiaggia. L’importante è non parlarlo ma cantarlo. Lo so, lo so. Questa non è certo la condotta di una buona insegnante ma…non lo sono mai stata e comunque, in qualche caso, questo per esempio, il fine giustifica i mezzi. Almeno catturo la loro attenzione! Mi fanno troppo ridere quando ripetono le mie parole…vieni con me, ti insegnerò la canzone della felicità…bobon bobon bobon!

A proposito di mezzi. Queste piccole pesti sono talmente vivaci e abituati anche a casa ad obbedire solo se ricevono qualche righellata, che costringono le maestre ad usare quei metodi che anche ai tempi del mio papà andavano di moda. Che dire? Esagerare non è certamente accettabile e su questo non ci piove. Posso assicurare, infatti, che il livello di punizione a cui ho assistito non è mai stato tanto grave da impedire al monello di tornare al suo posto con un sorriso già pronto a spuntare sotto i baffi! Io stessa ho impedito a cinque di rientrare a casa se non dopo diverso tempo che il resto era partito. Liberi di non crederci ma al permesso di uscire hanno cominciato a spingersi e a rincorrersi come se nulla fosse.

Un giorno però abbiamo tutti avuto paura. Eravamo andati nel cortile per osservare i luoghi vicini alla scuola. Al rientro mi trovavo vicino la porta per dirigere il traffico di entrata e vedo una cosa muoversi sotto la porta. Come una corda nera. Non volevo crederci. Ma appena il primo bimbo ha gridato “Gnoca ( Serpente)” per dare l’allarme, allora ho cominciato a sudare freddo. Chi era ancora fuori si è guardato bene dal muoversi. Mi preoccupava, infatti, la situazione di chi era già in aula. Mi immaginavo già il serpente che mordeva qualcuno! Insieme alla maestra siamo riuscite a tirare fuori tutti. Le grida avevano già fatto accorrere tutta la scuola e due ragazzini che lavoravano il campo vicino. Sono entrati e hanno seguito il serpente che passeggiava fra i banchi. Un colpo di machete e un sospirone generale alla vista del corpo, ma non solo. Anche urletti da stadio ad ogni singolo spasmo che scuoteva il rettile. Nero sulla schiena. Giallo sulla pancia. Lungo una settantina di centimetri, velenoso. Contenti per la sua fine? Si! Tutti. Soprattutto il cacciatore che ha portato a casa il bottino per una bella zuppa! Posso dire che il difficile è stato dopo. Convincere i piccoletti che non ne avremmo trovati altri e che potevano spostare i banchi e non sedersi là dove il sangue aveva sporcato il pavimento.

Durante l’ora di musica ho anche l’occasione di imparare l’inno nazionale. Sarà che quando andavo a scuola, le mie care maestre mi hanno trasmesso il senso patriottico imparando “Fratelli d’Italia” ma mi tocca sempre sentire “Début Congolais” e non posso fare a meno di pensare a questa Repubblica. A quanto sia ricca di contraddizioni politiche e culturali. Di tradizioni, credenze e culti ancestrali. Di odio. Di problemi viscerali. Di ricchezze rubate e mal gestite. Di vittimismi. Di odori. Di sogni vivi e sogni infranti. Di guerre. Di ingiustizie. Di inutili e fastose prassi burocratiche. Di colori. Di apatie. Di ribellioni. Di sofferenza. Di pregiudizi. Di sorrisi. Di vizi. Di morte. Di vita.

La ricreazione è uno dei momenti che preferisco. A volte resto fuori a guardarli rincorrersi, scalzi sulle pietre ( ma come fanno?) per match di football improvvisati; lasciare che l’acqua scorra sulle loro teste calde; abbuffarsi di mais bollito conservato nelle foglie di banano. Alcuni poi rinunciano a tutto questo solo per restarmi seduti vicino. Mi accarezzano le braccia e mi dicono tante cose. La maggior parte delle quali non capisco. Uno di terza, François, mi viene in soccorso. E mi fa da traduttore. Che tenero!

Dopo la ricreazione inizia la fase più faticosa. Il sole è già alto. Il caldo sembra fungere da abbassa palpebre. Anche solo scrivere diventa uno sforzo gigantesco. Lo so perché la prima vittima sono io. Penso che anche la fame giochi un ruolo importante. Abituati ad un solo pasto giornaliero, è vero, ma abituati a farlo in qualsiasi momento della giornata. Come può essere la mattina presto ( e non pensate a latte e biscotti ma a riso e fagioli) o il pomeriggio tardi. Ad un certo punto lo stomaco reclama. Ma per fortuna è solo un’ora e mezza e quasi sempre negli ultimi trenta minuti ci si dedica ai compiti. Addio sonnolenza e flemma, l’energia rimonta e cominciano i giochi del cercare di rubare le matite, di strappare le pagine altrui, dei pianti per non avere il quaderno perché “Papà alobi, mbongo azi te ( Papà ha detto che non ci sono soldi)”. È in questo momento che arrivano le mie crisi. Vengo chiamata da tutte le parti. Scorgo sui quaderni delle difficoltà insormontabili. Mi sforzo per farmi ascoltare ma invano. Fortuna che la campanella non tarda a suonare. Un momento. La campanella di cui parlo non è quella a cui siamo abituati noi. È un pezzo di ferro ( in molti casi il cerchione arrugginito di una ruota) appeso a due pali e che viene picchiato con un bastoncino.

I bimbi più grandi vengono a curiosare, là nella classe dove io cerco di mettere in ordine i quaderni. Poi, a volte, la fortuna di sentirli cantare la preghiera. C’è una canzone dedicata a Maria che intonata da quelle teneri voci mi fa venire i brividi.

Saluto la direttrice e mi avvio sulla strada del ritorno. Oh, quanto mi piace tornare a casa! Perché? Perché non sono MAI sola. Tre, quattro,cinque. Un gruppetto mi si affianca. Chi fa a gara per tenermi la mano. Chi ha troppo caldo, resta in canotta e si avvolge come un turbante la camicia sulla testa. Chi mi chiede soldi o caramelle. Ma anche soldi e caramelle. Chi ha in bocca un filo d’erba. Chi continua ad indossare i panni del capoclasse anche fuori. Chi mi chiede se domani andrò ancora.

Alcune capanne sono esattamente così come le ho lasciate. Altre brulicano di vita. “Osongi? (Rientri?)”, mi chiedono. “Ehhhhh!”. Confermo alla loro maniera. Con questa “e” strascicata. Non so perché ma quando mi parlano come una di loro mi sento bene. Magari fosse sempre così. Purtroppo non lo è. Il disprezzo è dietro lo sguardo cupo della donna che non risponde al mio saluto. Dietro alle parole di chi mi ha detto che alcuni bambini hanno paura di me perché i coloni europei hanno mangiato i congolesi. Dietro alle risate di chi mi indica quando passo di fronte al mercatino.

Salto con un balzo il ruscelletto che si trova per la strada. Lo stesso che ingranditosi, una volta, mi ha costretto a prendere il percorso più lungo sotto la pioggia. Gocce fredde fredde. Maglia fradicia. Occhi mezzo chiusi. Ma che sensazione di libertà!

Siamo usciti sulla strada principale. Il via vai è continuo. Commercianti ambulanti, bici stracolme. Rivoli di sudore scendono lungo la schiena. Donne con la legna accatastata in testa. Già alcuni ragazzi che tolta la divisa portano bidoni carichi d’acqua. Il villaggio non si ferma mai. Arrivo a casa. Saluto i lavoratori e il resto della comunità. Entro, mentre fuori tutto scorre.