venerdì 11 ottobre 2013

L’ABBRACCIO


L’aereo sta per atterrare. Mi sporgo dal finestrino. La vista mi si offusca per le lacrime di commozione. Ma cosa faccio? Sto per ritornare in quella terra che mi ha stregato e piango? Vabbè…troppi ricordi….troppe emozioni all’ombra di quegli alberi, su quella terra rossastra che fa da pista da atterraggio . Ci sono! Sono di nuovo qui! E mi sembra di non essere mai andata via. Ho pianto tanto quel giorno di gennaio, quando non sapevo se sarei mai più ritornata. E adesso? Le grida di benvenuto mi raggiungono da tutti gli angoli di quella stessa strada che ora percorro a ritroso. Incrocio quegli occhi scuri e liquidi che non vedevo più da tempo. I piedini scalzi. I vestiti logori. I sorrisi smaglianti.
Gli scossoni dell’auto mi tengono sveglia sebbene la cappa di calore mi provochi un po’ di sonnolenza.  Non mi sembra vero. Una strana sensazione si impadronisce di me. Avevo conservato così bene la luminosità dei colori, i suoni della lingua, i gesti della gente che è come vivere un déjà vu.
Ad accogliermi gli amici. A stringermi le mani quelle persone con cui sono riuscita a mantenere un legame epistolare , dal momento che non ci sono altri mezzi di comunicazione in questo sperduto villaggio dell’est della RDCongo. Da lontano qualcuno mi sbircia. Timido alza una mano. Ma non è certo che sia davvero io. Nel dubbio, prosegue. E io resto un po’ delusa.
Mi fermo lì sotto la veranda a chiacchierare. I miei occhi si riappropriano degli spazi, avidi, impazienti. Ma cosa cerco ancora? Sono qui, no? Ma poi , eccolo. Eccolo quello che non mi aspettavo ma che volevo senza saperlo e che ha reso tutto incredibilmente NUOVO. Sono corsa fuori a vedere passare le mucche . Alcune ragazzine della scuola elementare, dove lo scorso anno ho tenuto un corso, mi hanno vista in mezzo al vialetto. Le ho salutate e loro mi sono venute incontro, ma invece di stringermi la mano come è costume salutare qui, mi hanno abbracciato!!! Si!!!! Abbracciato!! Un abbraccio caloroso, piccolo, dolce! L’ABBRACCIO di Rungu. L’abbraccio che mi ha fatto sentire DAVVERO a casa. Il mio cuore ha preso a battere furioso, ridevo come una pazza, stringevo una ad una quelle bambine e ho ripreso a sentirmi viva. Viva come non mi capitava da tempo.
È quasi una settimana che sono qui. Passeggio per queste strade, ritrovo persone che non pensavo di rivedere. Respiro il profumo dell’umidità tropicale, riammiro il cielo stellato con il naso all’insù. Immagino quello che sarà, ricordando quello che è stato.
 La gente continua a fermarmi per darmi il benvenuto, per dirmi Merci, per stringermi la mano e chiedermi della famiglia, della mia collega di servizio civile, per sorridermi. Io ricambio. Io rispondo. Io sono qui. Di nuovo. Adesso.


sabato 21 settembre 2013

NAKOZONGA

Saranno le sette del pomeriggio. Sento sulla pelle il caldo appicicaticcio della città. Sono appoggiata allo stipite della porta di una farmacia aperta proprio di fronte all’incrocio più incasinato di Kishasa. Il rumore del generatore di corrente piazzato fuori si confonde con la musica congolese onnipresente. Guardo l’interno della boutique. Pile e pile di farmaci stipati. L’odore tipico dei medicinali non manca. Guardo fuori e alla luce dei piccoli fuocherelli ai margini della strada vedo una mamma seduta su un gradino. Regge sulle ginocchia il suo bambino. A qualche metro di distanza un uomo sonnecchia su una sedia di plastica.
Sono di nuovo qui. Dopo otto mesi i miei piedi toccano il suo africano. È una bizzarra sensazione. Fino a poche ore fa ero in Italia, persa. Adesso sono qui ed è come non essere mai andata via.
Michel finisce i suoi acquisti. Torniamo per strada. Lo seguo a pochi  passi. La gente si accalca in gruppo. All’inizio non capisco cosa aspettino. È la prima volta che passo di lì a piedi. Quindi la prospettiva mi è nuova. Arriva il pullmino che funge da autobus. Ad un certo punto rischio di essere trascinata dalla folla che si spintona per montare. Sguscio via. La polvere si solleva. Le carte e le buste di plastica turbinano in aria con le folate di vento. Ci fermiamo a comprare del pane. Una tinozza piena di panini. Sul bordo esposti i pezzi in vendita. I franchi congolesi passano di mano in mano. Tiro su le buste. Seguo le trattative. Bene. Possiamo tornare indietro. Le macchine sfrecciano. Ti sfiorano. Triple , quadruple corsie scomposte. Portiere che si aprono. Mani che si intrecciano. Guardo avanti a me. La penombra non mi fa sentire a mio agio. E penso al villaggio. Penso che tutto questo non c’è. I piccoli negozietti che si affacciano sulla strada sono illuminati a giorno. Con la musica a palla. La gente cammina per fatti suoi. Uomini in giacca e cravatta. Donne corpose. Venditori ambulanti. I colori attenuati dall’oscurità.
Svoltiamo a destra e come per incanto niente più rumore. Niente più traffico. Si disperde in lontananza. Qui è ancora più buio. Camminiamo piano. Parliamo di questa nazione che mi ospita. Contraddizioni. Speranze. Scoperte. Arriviamo al centro. I bambini  sono seduti sulle sedie colorate. Stranamente calmi. Il pomeriggio hanno corso come matti. Adesso aspettano solo la cena per poi andare a dormire. Sono così teneri. Accarezzo la schiena di Samia. Penso alla sua vita passata in strada. Cosa avranno visto i suoi occhi? Come sarà stato per lei? Adesso è qui. Sembra felice. E io penso a quanto sia difficile capire certe cose. Guardo me stessa e mi dico che so veramente così poco.
La più piccola è davvero un mistero. Ha due anni. Vive nella casa per bambini di strada da qualche mese. È dolce. Parla poco. Sembra seria. Ma se le fai il solletico sorride. Un sorriso piccolo ma vero.

Ancora una volta mi ritrovo qui.  Le zanzariere. I rospi che cantano fuori dalla finestra. Ripenso al mio viaggio. A tutte le paure. A come già al primo scalo il cuore ha cominciato a battermi forte sentendo le prime parole in lingala.  E poi ieri. Quando un bimbetto di sei anni è venuto a sedersi accanto a me. Allora si che ho capito. Sono tornata. Sono qui.

giovedì 21 marzo 2013

DIVERSO


Mi sono sempre chiesta cosa potesse significare quella parola. Diverso. Cosa si nascondesse dietro quei suoni. Chi fosse questo fantomatico “ diverso”. E immaginavo sempre qualcuno che fosse strano. Facesse cose assurde. Vestisse abiti stravaganti. Soprattutto qualcuno che fosse lontano da me.
Poi mi sono trovata a vivere per un anno in un villaggio nascosto nel cuore della foresta tropicale, in Repubblica Democratica del Congo. Un giorno mi sono sorpresa a guardarmi intorno. Colori accesi. Un paesaggio completamente diverso da quello a cui sono abituata. Una lingua dai toni sconosciuti. Bambini con una pelle dal colore diverso dal mio. Un modo di vedere la vita diverso. Ho pensato: “Bene, devo adattarmi a queste novità, piano piano, aprirmi all’altro. Al diverso.
Il tempo è passato.
Ho incontrato tanta gente.
Ho lavorato nelle scuole.
Ho giocato con i bambini.
Ho dato una mano quando ce ne era bisogno.
Ho viaggiato nel fango.
Ho raccolto i fiori.
Ho stretto delle mani.
Ho condiviso gioie e dolori. Ho sorriso e ho visto rivolgermi  tantissimi sorrisi. Ho sentito addosso sguardi di disprezzo ma ho avvertito anche tanto amore. Ho avuto paura. Ho pianto. Ho abbracciato tante volte. Ho incrociato bellissimi occhi scuri. Ho ricevuto in dono una gallina ed un uovo. Ho guardato chi avevo vicino e ho visto che in tutto quel nuovo, in quel diverso, in quella terra lontana, se c’era una persona diversa, quella ero proprio io eppure mi avevano accettata lì, a casa loro.


mercoledì 27 febbraio 2013

IL CERCHIO


Sto cercando di trovare le parole più adatte per scrivere di questo giorno. Per ricordare cosa ho provato. Per rivivere le emozioni di quel 27 febbraio 2012. Quando per la prima volta sono montata in Land Rover, attraversato la foresta, ascoltato il benvenuto lungo la strada che mi portava a Rungu. Il mio villaggio.

L’idea di ripensare a quel momento mi ha fatto venire in mente un cerchio.

Avete presente, no? Prendi il compasso. Fai in modo che la punta resti fissa al centro. Prendi l’altra estremità e la fai ruotare lentamente. Lentamente. Con scrupolosa attenzione perché un piccolo tremolio non crei quelle increspature lungo la circonferenza che tu vuoi compaia perfetta. Ma alla fine, perfetta non esce mai. Almeno. Nei miei, di cerchi, quelle svirgolature non sono mai mancate. E se ci pensate la perfezione non esiste. Non c’è nei bambini sporchi che mi hanno abbracciato, negli occhi spenti di chi non spera più,  e in quelli ciechi di chi spera troppo e non guarda al presente. Non c’è nella signora che un giorno mi ha detto “ Io non ti saluto, dammi i soldi”. Non c’è nei famigliari di Joel che a 10 anni va a vendere i bignè e non ha tempo di studiare. Non c’è nell’insegnante che deve farsi bastare il suo misero stipendio per mantenere i suoi bambini. Non c’è in un amministratore che ama le formalità e canta a squarciagola l’inno nazionale. Non c’è sulle mani rugose di papà Joseph che lavora nei campi tutto il giorno. Non c’è sul camice macchiato del dottore. Non c’è sotto le unghie del venditore di papaye. Non c’è negli occhi del mio coco Abule, annebbiati dalla cataratta. Non c’è  nel sorriso sdentato della nonnina che mi ha detto “ Dio ti benedica!”. Non c’è nel mio di sorriso, disincantato di fronte a quello che ho vissuto.

Mi viene in mente un momento. Un ricordo. Ne ripesco uno ogni tanto.

E’ domenica. So che durante la settimana la scuola materna sarà chiusa per le vacanze di Natale. Bisogna terminare la pittura sul muro perché asciughi in tempo. Così mi trovo in cima all’impalcatura a spennellare il verde della chioma dell’albero. Intorno a me silenzio perché tutti sono in chiesa. Con la coda dell’occhio vedo qualcosa che si muove in basso. Quando si è soli, sovrappensiero, capita di prendere quelle paure esagerate, immaginando chissà quali esseri . Il cuore mi balza in petto. “Cosa..?”. E’ Matthew con  il suo smoking in miniatura. Con la giacca dalle maniche troppo lunghe per i suoi braccini da ometto di 6 anni. Mi guarda con gli occhi rivolti in alto. Verso me che sono come sospesa a qualche metro da terra. Stringe un sacchetto da cui succhia la sua bibita fruttata. “Ciao!” gli dico. Non mi risponde. Lo conosco bene. Lui è un po’ così. Sembra timido. Sembra che non ti voglia lasciare entrare nella sfera delle sue amicizie. Eppure. Eppure a scuola mi sorride sempre. Eppure oggi ha spinto il cancello socchiuso ed è arrivato fin qui. Per salutarmi, ne sono certa. Scendo giù e gli tendo la mano. Restiamo così. A guardare il disegno sul muro. Io mi passo una mano sulla fronte sudata. Lui continua a bere. Penso davvero che a volte le parole non servono affatto.

Sono dal sarto. Lui prende le misure , io i nomi dei bambini per la cucitura delle uniformi scolastiche. Alcuni parlano a bassa voce. Stringono le braccia sul petto. Sembrano intimiditi. Non so. In soggezione?  Di fronte a me?! Bè , sì, sono una delle poche bianche in villaggio e per loro suona strano anche se sono da mesi qui. Cerco di sdrammatizzare facendo qualche domanda qua e là. Non posso immaginare che qualcuno abbia paura di me. Uno degli insegnanti, mio coetaneo, che è lì mi parla per venirmi in soccorso. Per fare luce. “Deve sapere che alcuni bambini hanno paura di lei perché i coloni hanno mangiato i bambini qui in Congo”. Sorride. A me da ridere resta poco. Penso solo che il mondo è uguale ovunque. Il passato vive nel presente e spesso anziché aiutare a cambiare le prospettive non fa altro che fossilizzarle. Gli uomini di cazzate ne hanno, ne fanno e ne faranno sempre.

Ecco. Ne pesco un altro. E’ una mattina fresca. Come sempre trovo qualcuno seduto fuori alla casa della comunità. Oggi ci sono due donne. Presumo madre e figlia. Questa, giovanissima tiene in braccio la sua bellissima bambina di cioccolato. Le saluto e chiedo se posso prendere la piccola. La ragazza ridacchia guardandosi con l’altra e mi tende le braccia. Oh ! Come è dolce quel fagottino! Mi si avvinghia addosso e mi sorride. Mi sorride , si. Mamma e nonna ridono divertite e mi dicono che sono brava con i bambini. Si preoccupano perché il pannetto pesa. E’zuppo. Non vogliono che mi sporchi. Ma va? Importa forse qualcosa?

Rungu. Rungu .Rungu.

Il tempo è volato.
La gente che mi ha accolta è lì. La stessa che poi mi ha salutato. La stessa di cui ogni tanto ricevo i saluti in brevi mail. La stessa che mi dice “ Tornerai?”
La foresta è lì. Immutata? No. Tutto cambia. Ma sempre verde e lussureggiante.
I fiumi sono lì. Le sponde dei quali sono stati il mio posto preferito verso cui andare a passeggiare. Scorrono lenti. Ora pieni ora secchi.

Rungu. Rungu. Rungu.

Un anno fa ero appena arrivata. 
Non mi sembrava vero.
Non capivo niente.
Non sapevo come sarebbe stato.

Adesso?
Adesso non so a che punto è quel cerchio.
Quella circonferenza imperfetta che ho cominciato a tracciare.
Sta per chiudersi? E’ chiusa? Si chiuderà?

Ma forse rispondere a queste domande non importa.
Forse quello che importa è sapere che al centro di quel cerchio ci sono io e che questa volta, questa linea curva non è solo un disegno su un foglio di carta. È altro.
 È vita. 

lunedì 11 febbraio 2013

STRADE



Le mie mani puzzano di colori a tempera. Ho la maglietta macchiata di verde, giallo e azzurro. Irina con in braccio la piccola Julienne mi sorride dall’altro lato dell’obiettivo. Scatto. Una , due foto. Gli altri bambini si avvicinano per guardare. Uno invece resta in disparte e si osserva fissamente l’indice dalla punta fucsia. “Che roba è questa?” dice la sua espressione fra lo stupito e lo spaventato. Sono alla scuola materna. E mi diverto un mondo. Ho finito di dipingere la parete delle nuove aule. Ci ho messo su un bel prato verde su cui svolazzano le farfalle, un albero in lontananza abitato da una piccola scimmia. Sullo sfondo un cielo immenso. Con le nuvolone bianche. Il cielo di Rungu insomma. Come non permettere ai miei piccoli amici di renderlo loro? Di dare un tocco di vivacità colorata? Uno alla volta sono lì, ad immergere il ditino nella tempera per tracciare un fiore in mezzo al prato. Oh! Arrivano tutti in fila con il faccino a punto interrogativo “ ma cosa vorranno farci fare oggi?”. Appena vedono cosa fa il compagno, cominciano a fremere. “Anche io!”. Etienne pesa un pochino, lo sollevo. Faccio per prendergli la mano ma la scosta dalla mia. Vuole essere LUI  a tracciare la sua firma. Un petalo di sghimbescio, uno perfettamente rotondo. È soddisfatto. Sgattaiola via per lavarsi le mani. Sorride. E torna a guardare il suo capolavoro. Gli piace!

Per i più grandi lasciamo che immergano tutto il palmo della mano. Uau!!! Vi immaginate questi piccoli Picasso all’opera??? Ad un certo punto bisogna fermarli, se non vogliamo che dipingano davvero come lui. Mi guardano. Mi sorridono. Si nascondono. Mi si aggrappano. C’è chi vuole per forza essere preso in braccio perché lui ha scelto DOVE mettere la sua impronta. Proprio lì. Proprio in quell’angolo in alto a sinistra, a fianco all’ape. Non arriva. Ha bisogno di me. Lo sollevo. Osservo il suo sguardo. La concentrazione si nota nella punta della lingua rosa che fa capolino tra le labbra scure. Il cuore sta per sbalzarmi fuori dal petto per la felicità.

Mi guardo intorno adesso. Sono a casa. Seduta alla mia scrivania. Nessun bambino. Nessun prato. Sono rimasta solo io. Nessun altro. Ma la magia in qualche modo è qui. La sento. E allora mi rendo conto che i protagonisti di questo mio anno speciale, di questo mio anno di servizio civile sono stati loro. È vero. Io ci sono stata, sono stata là. Ho aperto i barattoli, ho versato i colori, ho indirizzato le loro manine. Ma i veri artisti erano lì, di fronte a me, intorno a me. 

Questo è stato. Ho preso una strada. Ho iniziato a camminare. Ho incontrato della gente. E per un certo tempo quella gente e io abbiamo camminato insieme.

giovedì 7 febbraio 2013

UNA PARTE MINUSCOLA DI MONDO


Kinshasa, 11 gennaio 2013

Sono le 21. Fuori un brusio di sottofondo accompagna la musica della radio accesa 24 ore su 24 ore. Un brusio che avevo dimenticato ma che allo stesso tempo mi suona così famigliare. Gomme che mangiano l’asfalto, motori che rombano, smog come una nube sulla città. Si, sulla città. Non posso più parlare di Rungu, del mio villaggio ma della capitale della Rdc, Kinshasa, eretta sulla costa del fiume Congo. Quel fiume così grande e maestoso, dalle acque dal color del fango,  quel fiume che diversi esploratori nel corso di secoli hanno solcato in lungo e in largo. Navigabile solo verso il nord, fino a Kisangani. Quel fiume che ritraggono sempre con in mezzo due uomini scuri in piroga stagliati contro il sole del tramonto. Li ho visti. Proprio quei due, si!
Come la  prima volta che sono scesa all’aeroporto, quasi un anno fa, anche questa volta l’afa pesante e umida mi ha travolto.  Ma niente oscurità,  solo il tum tum del cuore allo sportello stranieri. Ma fila tutto liscio. Ed eccomi qui da una settimana, lontana dalla natura, dal sole cocente e dalla gente della foresta. Il traffico che imbottiglia camioncini, auto e pedoni. Un girone dantesco? Forse si. Siamo costretti a chiudere le sicure delle portiere per evitare scippi di sorta e entrate senza permesso dei violenti poliziotti sempre a caccia di soldi da sfilare. Davanti a noi un serpentone di auto. A destra da uno dei mezzi pubblici ( una multipla stracolma di passeggeri) saltano giù i clienti. La fermata non esiste. Vuoi scendere o salire adesso? Salta su o smonta! Niente di più semplice e pericoloso al contempo! I venditori ambulanti ti ficcano la merce in grembo: fazzoletti, bibite ghiacciate, panini, occhiali da sole. Qualcuno ci grida di scendere. Qualcun altro ci fa il segno dell’ok, come a dire “brave per esserci venuti a trovare!”.
Vista con certi occhi Kinshasa assomiglia un po’ a Milano, soprattutto verso il centro. Grandi palazzoni, lunghi boulevard, una bruma grigia sospesa a qualche metro da terra. Il quartiere più chic abitato da diplomatici e ambasciatori. Lussuose ville guardate a vista. Dappertutto militari armati. Con un cipiglio duro da far paura. A chi poi? E perché? La RDC è un Paese in perenne stato di guerra, mi dicono, ecco perché. Bè, si, lo sapevo…ma…si vede proprio che ho passato un anno in un posto diverso. Me ne accorgo anche dai bambini. Se a Rungu bastavano due secondi perché un bimbetto seduto in chiesa due banchi avanti al mio rispondesse ai miei giochi, qui ci ho impiegato due ore perché mi sorridesse! Mi giro intorno e la voglia di gridare il saluto mi si inceppa in gola. Qui tutti camminano frenetici o se incrociano il tuo sguardo non ci leggi quella timidezza che si supera subito con un ciao, ma spesso un cipiglio nervoso, quasi stizzito. La mia mano si arresta e si chiude. Ingoio e sorrido del tipo che dorme su una sedia mentre dall’altro lato del marciapiede un motorino sfreccia a due centimetri da una jeep il cui conducente urla di tutto. Cavolo! Per la fare la siesta non è necessario stare nella quiete del tuo giardino!
A volte però inciampi in quelle immagini che ti confondono, ti spaesano…ma dove sono?  Entro nell’aula dove i bimbi di strada del centro per minori fanno lezione. Le filastrocche, i suoni, i colori, gli odori della mia scuola. I bambini ridacchiano, si spintonano. Fanno a gare per rispondere alla domanda. La nostalgia mi sfiora.
Scendo lungo il quartiere . Attraverso il mercato e ascolto quella lingua dai toni adesso più comprensibili per me. Adesso che manca poco e l’aereo mi porterà lontano da qui.
I ragazzi dello studentato mi chiedono come è la vita in foresta. Mi fa strano essere io a raccontare di una zona del loro Paese. Dico questo e dico quello . “ Ma no, dai? Davvero?”.
Eh, già è proprio così. Vivere in un posto non vuol dire conoscere una nazione o addirittura un continente.
 Non posso dire di essere stata in Africa e metterci un punto.
Non posso dire di sapere cosa è l’Africa e metterci un punto.
Non posso dire  di conoscere Rungu e metterci un punto.
Prima del punto devo dire di aver toccato una parte minuscola di mondo. Quella parte che per undici mesi circa è stata casa mia.

giovedì 17 gennaio 2013

“COSA POSSO FARCI SE IL MIO CAMPO E’ COSI’ LONTANO?”


22 dicembre 2012


Piene vacanze di Natale. Il villaggio sembra vuoto. Quando le scuole sono chiuse è sempre così. Una strana quiete. E io abituata al via vai degli scolari sono sempre lì in attesa. Come se da un momento all’altro dovessi sentire la campanella e vederli correre fuori con i quaderni in testa. Giovedì mi trovavo alla scuola materna per aiutare i bambini adottati a scrivere  le letterine di Buon Natale e Buon Anno al papà o alla mamma che li sostiene dall’Italia. Un accento mancante su una “e”, un po’ di disegni da modello sulla lavagna, una sgridata a chi sgattaiola fuori per giocare sull’altalena ( anche se alla fine a dondolare ci sono andata anche io!).

Nathalie , una piccoletta di prima elementare, con la testa bollente e il corpicino tremante era sdraiata sulla panca.  È ammalata ma come sempre è stata mandata fuori casa senza molta attenzione. Georgine mi dice di portarla all’ospedale perché in quanto adottata ha diritto alle cure mediche, intanto lei va a cercare qualcuno della famiglia perché se il dottore optava per l’ospedalizzazione qualcuno con lei doveva restarci! Così ho infilato i soldi in tasca, l’ho presa in braccio con addosso SOLO il suo consunto vestitino rosa e sono andata in ospedale. Ho seguito tutta la trafila. Prima ho comprato un nuovo libretto sanitario, poi ho fatto la fila per pagare la consultazione dal medico e quando l’impiegato è arrivato mi ha fatto passare avanti.  “Ma non segui l’ordine d’arrivo dei pazienti?” gli ho detto. C’era altra gente prima di me. Lui ha sorriso e ha continuato a segnare. Le preferenze di pelle mi fanno veramente girare quelle che non ho! Allora mi ha scritto la visita e siamo andate  a pagare e poi a sederci fuori dalla studio del dottore. La bambina scotta ancora di più e io già mi immagino il peggio. È così facile vedere smettere di respirare un bambino qui. La gente mi guarda e mi chiede se è mia figlia. Cosa posso rispondere? “SI”.

Anche il dottore mi fa passare avanti e durante la visita mi chiede cosa penso di fare al mio rientro. Cosa penso di fare per quest’Africa. Mi metterò a cercare fondi? Il cervello comincia fumarmi. “Possiamo pensare alla bambina?” Allora le prende la temperatura, 38,7 e nient’altro. Sarà malaria. Prescrive diverse medicine e l’ospedalizzazione. Fino ad adesso nessuno è venuto ad avvisarmi perciò sarò io la garde malade,  la persona che la assisterà. Il dottore mi guarda e ridacchia. Starà pensando “ oh questi bianchi folli!”.

Sono andata a pagare e mi hanno trovato una stanza a malapena. La pediatria è stracolma. Casi di anemia, malaria. Meningite. La stagione secca fa alzare tantissima polvere che veicola i vari virus e gli sbalzi di temperatura  del mattino presto e la sera indeboliscono il sistema immunitario. Le infermiere non mi sembrano per niente dolci.. Il lingala suona un po’ come il tedesco. Imperioso. Pieno di imperativi e senza per favore . Nathalie si stende sul materasso nudo in attesa delle lenzuola e le iniettano la perfusione di chinino. Le gocce scendono piano piano. Il chinino è pericolosissimo se entra in circolo a grande velocità. Geme un po’. Poi si  acquieta.  Allora mi guardo intorno. In ospedale ci sono già stata, ma mai come assistente di un paziente. È come vedere tutto per la prima volta. La stanza spoglia, le pareti sgretolate, odore di pipì, le padelle del cibo a terra sotto il comodino con i cucchiai sporchi. Un bambino con gli occhi sgranati che mi fissa apatico, un altro malnutrito senza forza in braccio alla mamma. Da quando sono qui è il primo che vedo in questo stato. Veramente come quelli dei film. Ossa. Ossa e ossa. Una testa enorme per di più. Non parla. Mangia quelle grosse larve bianche boccheggiando come un pesce. La testa gli pende all’indietro. Il pisellino una cosa grinzosa in mezzo a due ossa lunghe, le gambe. Chiudo gli occhi e caccio indietro le lacrime. Li riapro e chiedo alla signora some stava. Così mi dice che ha avuto la meningite, è debole, ha le febbre, la tosse, sono lì da tre settimane. Lei non ha nessuno a darle il cambio. È sempre con il suo bambino.  Intanto la mia malata si muove e mi indica qualcosa con il ditino.  E cosa mi chiede? Con la testa che scoppia, sudata, senza nessuno, con l’ago infilato nel braccio? Cosa può chiedere una bambina minuscola che vive con la nonna che lascia lei e i suoi fratellini soli in casa per tre giorni per andare al campo ( è questo che abbiamo saputo della sua famiglia) sdraiata vicino ad una bianca che ha pagato per lei usando i soldi che erano nella tasca sinistra? “Mbongo”. Soldi. È questo che mi ha detto. Questo . Dapprima un’ondata di rabbia, poi la rassegnazione. Non è certo colpa sua. Ripete, fa quello che le hanno insegnato , quello che vede. Ho pensato che quello che stavo facendo era inutile. Che ci facevo là io?
Mi è passata a poco a poco. Ho cominciato a chiacchierare con le mamme, in un misto linguistico. Ho incontrato alcune persone che conosco già. Ho pensato a Maria che lavora da 30 anni in questo posto dove cerca di portare i nostri criteri ospedalieri, ma invano. Ho visto girare l’ostetrica tutta bardata dopo il cesareo con le forbici del parto fuori dalla sala. Galline a beccare nelle aiuole fuori dalle camere, bucce di noccioline sotto il letto, bambini a cui veniva cambiato il “ pannolino” per terra. Ho pensato che è tutto così diverso e complicato. Ma allo stesso tempo così tanto semplice. Senza tanti se e tanti ma.
 Intanto era girata la voce che la demoiselle assisteva una bambina e che la sua nonna è una irresponsabile. Dire che qui sono sempre sotto i riflettori è un eufemismo. Grazie a questo passaparola  è passata una donna che conosce la bambina e  si  è offerta di assisterla insieme al suo di bambino, ricoverato anche lui. Così sono andata a casa dopo 4 ore. Che giornata più assurda. Ci sono tornata nel pomeriggio e ieri mattina. Sempre sola era. Mi hanno detto che era arrivata una bambina per stare con lei ma io non l’ho vista. Mentre ero là mi chiedono il gruppo sanguigno e se potevo donare perché c’era una bambina di tre anni con 2 di emoglobina. Moriva se non facevano subito una trasfusione. Il problema è che qui tantissimi sono anemici e sangue non c’è. Pochissimi donano. Va bene. Ho già donato altre volte in Italia. Allora vedono che sono zero positivo e posso farlo. 
 Allora dopo la caccia alla vena ( “E meno male che sono bianca!” ho detto al laboratorista) mi hanno tirato il sangue. Nonostante Maria dicesse che bisognava fare presto , tutti erano calmi. Io stessa non mi sono resa conto di quanto fosse grave la cosa. Ma qui sono così flemmatici sempre. Io non ho nemmeno sentito questa donazione come diversa dalle altre eppure ho visto che il mio sangue è servito a qualcosa. Comunque la bambina sta bene oggi. Sono passata ieri pomeriggio e anche stamattina. Nathalie è uscita. Ma la nonna si è fatta viva solo oggi . Calma.
“ Cosa posso farci se il mio campo è così lontano?”