Sto cercando di trovare le parole più adatte per
scrivere di questo giorno. Per ricordare cosa ho provato. Per rivivere le emozioni
di quel 27 febbraio 2012. Quando per la prima volta sono montata in Land Rover,
attraversato la foresta, ascoltato il benvenuto lungo la strada che mi portava
a Rungu. Il mio villaggio.
L’idea di ripensare a quel momento mi ha fatto
venire in mente un cerchio.
Avete presente, no? Prendi il compasso. Fai in modo
che la punta resti fissa al centro. Prendi l’altra estremità e la fai ruotare
lentamente. Lentamente. Con scrupolosa attenzione perché un piccolo tremolio
non crei quelle increspature lungo la circonferenza che tu vuoi compaia
perfetta. Ma alla fine, perfetta non esce mai. Almeno. Nei miei, di cerchi,
quelle svirgolature non sono mai mancate. E se ci pensate la perfezione non
esiste. Non c’è nei bambini sporchi che mi hanno abbracciato, negli occhi
spenti di chi non spera più, e in quelli
ciechi di chi spera troppo e non guarda al presente. Non c’è nella signora che
un giorno mi ha detto “ Io non ti saluto, dammi i soldi”. Non c’è nei
famigliari di Joel che a 10 anni va a vendere i bignè e non ha tempo di
studiare. Non c’è nell’insegnante che deve farsi bastare il suo misero
stipendio per mantenere i suoi bambini. Non c’è in un amministratore che ama le
formalità e canta a squarciagola l’inno nazionale. Non c’è sulle mani rugose di
papà Joseph che lavora nei campi tutto il giorno. Non c’è sul camice macchiato
del dottore. Non c’è sotto le unghie del venditore di papaye. Non c’è negli occhi
del mio coco Abule, annebbiati dalla cataratta. Non c’è nel sorriso sdentato della nonnina che mi ha
detto “ Dio ti benedica!”. Non c’è nel mio di sorriso, disincantato di fronte a
quello che ho vissuto.
Mi viene in mente un momento. Un ricordo. Ne ripesco
uno ogni tanto.
E’ domenica. So che durante la settimana la scuola
materna sarà chiusa per le vacanze di Natale. Bisogna terminare la pittura sul
muro perché asciughi in tempo. Così mi trovo in cima all’impalcatura a
spennellare il verde della chioma dell’albero. Intorno a me silenzio perché tutti
sono in chiesa. Con la coda dell’occhio vedo qualcosa che si muove in basso.
Quando si è soli, sovrappensiero, capita di prendere quelle paure esagerate,
immaginando chissà quali esseri . Il cuore mi balza in petto. “Cosa..?”. E’
Matthew con il suo smoking in miniatura.
Con la giacca dalle maniche troppo lunghe per i suoi braccini da ometto di 6
anni. Mi guarda con gli occhi rivolti in alto. Verso me che sono come sospesa a
qualche metro da terra. Stringe un sacchetto da cui succhia la sua bibita
fruttata. “Ciao!” gli dico. Non mi risponde. Lo conosco bene. Lui è un po’
così. Sembra timido. Sembra che non ti voglia lasciare entrare nella sfera
delle sue amicizie. Eppure. Eppure a scuola mi sorride sempre. Eppure oggi ha
spinto il cancello socchiuso ed è arrivato fin qui. Per salutarmi, ne sono
certa. Scendo giù e gli tendo la mano. Restiamo così. A guardare il disegno sul
muro. Io mi passo una mano sulla fronte sudata. Lui continua a bere. Penso
davvero che a volte le parole non servono affatto.
Sono dal sarto. Lui prende le misure , io i nomi dei
bambini per la cucitura delle uniformi scolastiche. Alcuni parlano a bassa
voce. Stringono le braccia sul petto. Sembrano intimiditi. Non so. In
soggezione? Di fronte a me?! Bè , sì,
sono una delle poche bianche in villaggio e per loro suona strano anche se sono
da mesi qui. Cerco di sdrammatizzare facendo qualche domanda qua e là. Non
posso immaginare che qualcuno abbia paura di me. Uno degli insegnanti, mio
coetaneo, che è lì mi parla per venirmi in soccorso. Per fare luce. “Deve
sapere che alcuni bambini hanno paura di lei perché i coloni hanno mangiato i
bambini qui in Congo”. Sorride. A me da ridere resta poco. Penso solo che il
mondo è uguale ovunque. Il passato vive nel presente e spesso anziché aiutare a
cambiare le prospettive non fa altro che fossilizzarle. Gli uomini di cazzate
ne hanno, ne fanno e ne faranno sempre.
Ecco. Ne pesco un altro. E’ una mattina fresca. Come
sempre trovo qualcuno seduto fuori alla casa della comunità. Oggi ci sono due
donne. Presumo madre e figlia. Questa, giovanissima tiene in braccio la sua
bellissima bambina di cioccolato. Le saluto e chiedo se posso prendere la
piccola. La ragazza ridacchia guardandosi con l’altra e mi tende le braccia. Oh
! Come è dolce quel fagottino! Mi si avvinghia addosso e mi sorride. Mi sorride
, si. Mamma e nonna ridono divertite e mi dicono che sono brava con i bambini.
Si preoccupano perché il pannetto pesa. E’zuppo. Non vogliono che mi sporchi.
Ma va? Importa forse qualcosa?
Rungu. Rungu .Rungu.
Il tempo è volato.
La gente che mi ha accolta è lì. La stessa che poi
mi ha salutato. La stessa di cui ogni tanto ricevo i saluti in brevi mail. La
stessa che mi dice “ Tornerai?”
La foresta è lì. Immutata? No. Tutto cambia. Ma
sempre verde e lussureggiante.
I fiumi sono lì. Le sponde dei quali sono stati il
mio posto preferito verso cui andare a passeggiare. Scorrono lenti. Ora pieni
ora secchi.
Rungu. Rungu. Rungu.
Un anno fa ero appena arrivata.
Non mi sembrava vero.
Non capivo niente.
Non sapevo come sarebbe stato.
Adesso?
Adesso non so a che punto è quel cerchio.
Quella circonferenza imperfetta che ho cominciato a
tracciare.
Sta per chiudersi? E’ chiusa? Si chiuderà?
Ma forse rispondere a queste domande non importa.
Forse quello che importa è sapere che al centro di quel
cerchio ci sono io e che questa volta, questa linea curva non è solo un disegno
su un foglio di carta. È altro.
È vita.
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