mercoledì 27 febbraio 2013

IL CERCHIO


Sto cercando di trovare le parole più adatte per scrivere di questo giorno. Per ricordare cosa ho provato. Per rivivere le emozioni di quel 27 febbraio 2012. Quando per la prima volta sono montata in Land Rover, attraversato la foresta, ascoltato il benvenuto lungo la strada che mi portava a Rungu. Il mio villaggio.

L’idea di ripensare a quel momento mi ha fatto venire in mente un cerchio.

Avete presente, no? Prendi il compasso. Fai in modo che la punta resti fissa al centro. Prendi l’altra estremità e la fai ruotare lentamente. Lentamente. Con scrupolosa attenzione perché un piccolo tremolio non crei quelle increspature lungo la circonferenza che tu vuoi compaia perfetta. Ma alla fine, perfetta non esce mai. Almeno. Nei miei, di cerchi, quelle svirgolature non sono mai mancate. E se ci pensate la perfezione non esiste. Non c’è nei bambini sporchi che mi hanno abbracciato, negli occhi spenti di chi non spera più,  e in quelli ciechi di chi spera troppo e non guarda al presente. Non c’è nella signora che un giorno mi ha detto “ Io non ti saluto, dammi i soldi”. Non c’è nei famigliari di Joel che a 10 anni va a vendere i bignè e non ha tempo di studiare. Non c’è nell’insegnante che deve farsi bastare il suo misero stipendio per mantenere i suoi bambini. Non c’è in un amministratore che ama le formalità e canta a squarciagola l’inno nazionale. Non c’è sulle mani rugose di papà Joseph che lavora nei campi tutto il giorno. Non c’è sul camice macchiato del dottore. Non c’è sotto le unghie del venditore di papaye. Non c’è negli occhi del mio coco Abule, annebbiati dalla cataratta. Non c’è  nel sorriso sdentato della nonnina che mi ha detto “ Dio ti benedica!”. Non c’è nel mio di sorriso, disincantato di fronte a quello che ho vissuto.

Mi viene in mente un momento. Un ricordo. Ne ripesco uno ogni tanto.

E’ domenica. So che durante la settimana la scuola materna sarà chiusa per le vacanze di Natale. Bisogna terminare la pittura sul muro perché asciughi in tempo. Così mi trovo in cima all’impalcatura a spennellare il verde della chioma dell’albero. Intorno a me silenzio perché tutti sono in chiesa. Con la coda dell’occhio vedo qualcosa che si muove in basso. Quando si è soli, sovrappensiero, capita di prendere quelle paure esagerate, immaginando chissà quali esseri . Il cuore mi balza in petto. “Cosa..?”. E’ Matthew con  il suo smoking in miniatura. Con la giacca dalle maniche troppo lunghe per i suoi braccini da ometto di 6 anni. Mi guarda con gli occhi rivolti in alto. Verso me che sono come sospesa a qualche metro da terra. Stringe un sacchetto da cui succhia la sua bibita fruttata. “Ciao!” gli dico. Non mi risponde. Lo conosco bene. Lui è un po’ così. Sembra timido. Sembra che non ti voglia lasciare entrare nella sfera delle sue amicizie. Eppure. Eppure a scuola mi sorride sempre. Eppure oggi ha spinto il cancello socchiuso ed è arrivato fin qui. Per salutarmi, ne sono certa. Scendo giù e gli tendo la mano. Restiamo così. A guardare il disegno sul muro. Io mi passo una mano sulla fronte sudata. Lui continua a bere. Penso davvero che a volte le parole non servono affatto.

Sono dal sarto. Lui prende le misure , io i nomi dei bambini per la cucitura delle uniformi scolastiche. Alcuni parlano a bassa voce. Stringono le braccia sul petto. Sembrano intimiditi. Non so. In soggezione?  Di fronte a me?! Bè , sì, sono una delle poche bianche in villaggio e per loro suona strano anche se sono da mesi qui. Cerco di sdrammatizzare facendo qualche domanda qua e là. Non posso immaginare che qualcuno abbia paura di me. Uno degli insegnanti, mio coetaneo, che è lì mi parla per venirmi in soccorso. Per fare luce. “Deve sapere che alcuni bambini hanno paura di lei perché i coloni hanno mangiato i bambini qui in Congo”. Sorride. A me da ridere resta poco. Penso solo che il mondo è uguale ovunque. Il passato vive nel presente e spesso anziché aiutare a cambiare le prospettive non fa altro che fossilizzarle. Gli uomini di cazzate ne hanno, ne fanno e ne faranno sempre.

Ecco. Ne pesco un altro. E’ una mattina fresca. Come sempre trovo qualcuno seduto fuori alla casa della comunità. Oggi ci sono due donne. Presumo madre e figlia. Questa, giovanissima tiene in braccio la sua bellissima bambina di cioccolato. Le saluto e chiedo se posso prendere la piccola. La ragazza ridacchia guardandosi con l’altra e mi tende le braccia. Oh ! Come è dolce quel fagottino! Mi si avvinghia addosso e mi sorride. Mi sorride , si. Mamma e nonna ridono divertite e mi dicono che sono brava con i bambini. Si preoccupano perché il pannetto pesa. E’zuppo. Non vogliono che mi sporchi. Ma va? Importa forse qualcosa?

Rungu. Rungu .Rungu.

Il tempo è volato.
La gente che mi ha accolta è lì. La stessa che poi mi ha salutato. La stessa di cui ogni tanto ricevo i saluti in brevi mail. La stessa che mi dice “ Tornerai?”
La foresta è lì. Immutata? No. Tutto cambia. Ma sempre verde e lussureggiante.
I fiumi sono lì. Le sponde dei quali sono stati il mio posto preferito verso cui andare a passeggiare. Scorrono lenti. Ora pieni ora secchi.

Rungu. Rungu. Rungu.

Un anno fa ero appena arrivata. 
Non mi sembrava vero.
Non capivo niente.
Non sapevo come sarebbe stato.

Adesso?
Adesso non so a che punto è quel cerchio.
Quella circonferenza imperfetta che ho cominciato a tracciare.
Sta per chiudersi? E’ chiusa? Si chiuderà?

Ma forse rispondere a queste domande non importa.
Forse quello che importa è sapere che al centro di quel cerchio ci sono io e che questa volta, questa linea curva non è solo un disegno su un foglio di carta. È altro.
 È vita. 

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