Mi
sono sempre chiesta cosa potesse significare quella parola. Diverso. Cosa si nascondesse dietro quei
suoni. Chi fosse questo fantomatico “ diverso”. E immaginavo sempre qualcuno
che fosse strano. Facesse cose assurde. Vestisse abiti stravaganti. Soprattutto
qualcuno che fosse lontano da me.
Poi
mi sono trovata a vivere per un anno in un villaggio nascosto nel cuore della
foresta tropicale, in Repubblica Democratica del Congo. Un giorno mi sono
sorpresa a guardarmi intorno. Colori accesi. Un paesaggio completamente diverso da quello a cui sono abituata.
Una lingua dai toni sconosciuti. Bambini con una pelle dal colore diverso dal mio. Un modo di vedere la vita diverso.
Ho pensato: “Bene, devo adattarmi a queste novità, piano piano, aprirmi
all’altro. Al diverso.”
Il
tempo è passato.
Ho
incontrato tanta gente.
Ho
lavorato nelle scuole.
Ho
giocato con i bambini.
Ho
dato una mano quando ce ne era bisogno.
Ho
viaggiato nel fango.
Ho
raccolto i fiori.
Ho
stretto delle mani.
Ho
condiviso gioie e dolori. Ho sorriso e ho visto rivolgermi tantissimi sorrisi. Ho sentito addosso
sguardi di disprezzo ma ho avvertito anche tanto amore. Ho avuto paura. Ho pianto.
Ho abbracciato tante volte. Ho incrociato bellissimi occhi scuri. Ho ricevuto
in dono una gallina ed un uovo. Ho guardato chi avevo vicino e ho visto che in
tutto quel nuovo, in quel diverso, in
quella terra lontana, se c’era una persona diversa,
quella ero proprio io eppure mi avevano accettata lì, a casa loro.
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