Saranno le sette del pomeriggio. Sento sulla pelle
il caldo appicicaticcio della città. Sono appoggiata allo stipite della porta
di una farmacia aperta proprio di fronte all’incrocio più incasinato di Kishasa.
Il rumore del generatore di corrente piazzato fuori si confonde con la musica
congolese onnipresente. Guardo l’interno della boutique. Pile e pile di farmaci
stipati. L’odore tipico dei medicinali non manca. Guardo fuori e alla luce dei
piccoli fuocherelli ai margini della strada vedo una mamma seduta su un
gradino. Regge sulle ginocchia il suo bambino. A qualche metro di distanza un
uomo sonnecchia su una sedia di plastica.
Sono di nuovo qui. Dopo otto mesi i miei piedi
toccano il suo africano. È una bizzarra sensazione. Fino a poche ore fa ero in
Italia, persa. Adesso sono qui ed è come non essere mai andata via.
Michel finisce i suoi acquisti. Torniamo per strada.
Lo seguo a pochi passi. La gente si
accalca in gruppo. All’inizio non capisco cosa aspettino. È la prima volta che
passo di lì a piedi. Quindi la prospettiva mi è nuova. Arriva il pullmino che
funge da autobus. Ad un certo punto rischio di essere trascinata dalla folla
che si spintona per montare. Sguscio via. La polvere si solleva. Le carte e le
buste di plastica turbinano in aria con le folate di vento. Ci fermiamo a
comprare del pane. Una tinozza piena di panini. Sul bordo esposti i pezzi in
vendita. I franchi congolesi passano di mano in mano. Tiro su le buste. Seguo
le trattative. Bene. Possiamo tornare indietro. Le macchine sfrecciano. Ti
sfiorano. Triple , quadruple corsie scomposte. Portiere che si aprono. Mani che
si intrecciano. Guardo avanti a me. La penombra non mi fa sentire a mio agio. E
penso al villaggio. Penso che tutto questo non c’è. I piccoli negozietti che si
affacciano sulla strada sono illuminati a giorno. Con la musica a palla. La
gente cammina per fatti suoi. Uomini in giacca e cravatta. Donne corpose.
Venditori ambulanti. I colori attenuati dall’oscurità.
Svoltiamo a destra e come per incanto niente più
rumore. Niente più traffico. Si disperde in lontananza. Qui è ancora più buio.
Camminiamo piano. Parliamo di questa nazione che mi ospita. Contraddizioni.
Speranze. Scoperte. Arriviamo al centro. I bambini sono seduti sulle sedie colorate. Stranamente
calmi. Il pomeriggio hanno corso come matti. Adesso aspettano solo la cena per
poi andare a dormire. Sono così teneri. Accarezzo la schiena di Samia. Penso
alla sua vita passata in strada. Cosa avranno visto i suoi occhi? Come sarà
stato per lei? Adesso è qui. Sembra felice. E io penso a quanto sia difficile
capire certe cose. Guardo me stessa e mi dico che so veramente così poco.
La più piccola è davvero un mistero. Ha due anni.
Vive nella casa per bambini di strada da qualche mese. È dolce. Parla poco.
Sembra seria. Ma se le fai il solletico sorride. Un sorriso piccolo ma vero.
Ancora una volta mi ritrovo qui. Le zanzariere. I rospi che cantano fuori
dalla finestra. Ripenso al mio viaggio. A tutte le paure. A come già al primo
scalo il cuore ha cominciato a battermi forte sentendo le prime parole in
lingala. E poi ieri. Quando un bimbetto
di sei anni è venuto a sedersi accanto a me. Allora si che ho capito. Sono
tornata. Sono qui.
Nessun commento:
Posta un commento