giovedì 20 settembre 2012

NANANANANANANA!



“Siiii, viaggiareeeee! Nanananananana!” Non ricordo come continua questa canzone di Battisti ma è il motivetto che canticchio silenziosamente mentre carichiamo gli zaini per il nostro viaggio a Dungu. Sono le 6:30 di sabato 8 settembre. La nebbia è scomparsa lentamente per fare spazio ad un sole caldo e carico di promesse. Si parte finalmente! Lasciate alle spalle le fobie (legittimamente fondate) per un’eventuale serie di imprevisti che ogni viaggio che si rispetti può nascondere, montiamo sulla nostra Land Rover bianca un po’ arrugginita. Dido ed Emmanuel sono i nostri autisti. Celestin e Faustin ci precedono in moto.
Un attimo. Sto correndo troppo. Occorre fare una piccola premessa. Qui il mezzo di locomozione per eccellenza è la moto ( terzo solo ai piedi e alla bicicletta). Le caratteristiche strade congolesi che attraversano come stretti serpenti di polvere e fango rosso la foresta tropicale sono capaci di svelare stupendi angoli di natura incontaminata solo grazie ad una buona dose di equilibrio, stomaco resistente agli scossoni e muscoli allenati. Le auto? Qui? Un miraggio! Ricordo bene il giorno del nostro arrivo ( quasi 7 mesi fa). I bambini che ci correvano incontro gridando “mo-tu-kaaaaa”. Mi sono chiesta da dove derivasse quell’entusiasmo, quello stesso tono usato quando si vede qualcosa di raro.
Intraprendere un viaggio in auto E’ un evento RARO. E questo l’ho capito mentre tentavo di uscire in fretta dal sedile posteriore mentre l’acqua rossa si faceva largo nell’abitacolo. Eravamo immersi fino alle portiere dal lato sinistro e impantanati nel fango dal lato destro, il tutto in un precario equilibrio. Cavolo, ho pensato! E meno male che il nostro amico agronomo ci ha detto “Ma cosa può succedere?”. Non potevo fare altro che pensare, dal momento che la mia forza di ragazza era insignificante in confronto a quella dei miei quattro amici congolesi che tentavano di tirarci fuori da quella pozzanghera. Ed eravamo partiti da quanto? Un’ora? Cosa altro poteva succedere? Sobbalzare decine di volte; dare testate al tetto della jeep; corrugare le sopracciglia al suono di scricchiolii dalla dubbia provenienza; avere l’orribile sensazione di stare per vomitare; temere che, durante uno degli svariati tentativi di venir fuori dal pantano, il cambio resti in mano a Dido come nella più classica scena da film; preoccuparsi per Celestin che cade con la moto scivolando nel fango. Ecco cosa.
Intorno a noi solo la macchia di un colore, il verde. Il verde dei grandi alberi della foresta tropicale. Le grida dei bambini che abitano i minuscoli villaggi disseminati lungo la strada. “Karibu mondele!”, Benvenuto europeo. La fatica dei commercianti ambulanti che percorrono il nostro stesso itinerario spingendo biciclette stracariche di sacchi d’olio di palma e maiali incazzati per lo spostamento imposto. Il sorriso. Il sorriso è la cosa che mi ha colpito ancora una volta. Capita di incrociare lo sguardo serio, oserei dire spento, di una donna con le foglie di manioca sulla testa. Un secondo dopo sollevo la mano per salutarla. Ed ecco la magia. Il suo viso si apre. Si apre, sì. Non c’è verbo migliore per descriverlo. Si apre in un bellissimo sorriso. Caldo. Vero. Illuminante. Un attimo prima mi dicevo: ecco, sta pensando a me come alla bianca ricca e presuntuosa. L’attimo dopo quella luce sul suo viso e la gioia nel mio petto.
Il paesaggio è cambiato adesso. Alti fili d’erba. Il cielo più vicino. Stiamo attraversando un tratto di savana. La stagione delle piogge ha permesso alle foglie di svilupparsi in altezza e non è difficile correre con la fantasia. Un leone acquattato dietro quel cespuglio, un elefante che si abbevera a quella pozza laggiù. In realtà sognare ad occhi aperti non è facile. Abbiamo bisogno di fare una sosta d’emergenza. La camera d’aria dello pneumatico anteriore destro si è bucata. Niente panico, ragazzi! La ruota di scorta è montata sul cofano proprio per queste occasioni, no? Può sembrare stupido ma per pura deformazione mentale all’italiana pensavo “non c’è due senza tre”. Ed ecco la terza. Siamo da poco sbucati fuori dalla deviazione ( 60 km che sostituiscono i dissestati 21) che è l’unica che ci permette di raggiungere la nostra meta senza (troppi) intoppi e che ci ha offerto anche la possibilità di vedere con i nostri occhi il centro dell’Africa. Si trova a Niangara ed è segnalato da una sorta di obelisco mezzo distrutto. Come molte delle costruzioni di questo villaggio fantasma. Attraversata da uno dei grandi affluenti del fiume Congo, l’Uélé,  Niangara conserva i resti della colonizzazione belga. Case dai tipici mattoncini rossi alternate alle capanne di fango ormai a me tanto famigliari. Un grande viale di alberi di mango. Alti, belli, slanciati. Come sentinelle al nostro passaggio. Uno di questi è sdraiato in mezzo alla strada. Tutto intorno si affannano uomini e donne armati di machete. La nostra auto ha bisogno di spazio per passare. E così su quelle braccia dalla pelle scura il sudore scivola in fretta per liberarci un varco. La gente ci guarda. Alcuni si limitano a salutarci. Altri ci propongono il matrimonio. Altri ancora restano in silenzio. Un silenzio che lascio spazio alla mia immaginazione. Cosa stai pensando ragazza dagli occhi neri e liquidi? Cosa pensi di questa tua sorella mondele che viene da una terra forse tanto , troppo ben stereotipata? Non lo so. Una voce attira il mio orecchio mentre riprendiamo il nostro viaggio : “ Demoiselle, ça c’est la souffrance du Congo!”. Ecco, sì. Avevo dimenticato. Forse me lo merito. In fondo in quel momento sono la rappresentante di quella categoria di uomini che da anni sfrutta questo continente. Perché non farle notare che qui la gente soffre? Tutto questo mi fa uno strano effetto. Da un lato sento che c’è la verità, dall’altro so che ogni luogo, ogni ambiente, ogni situazione presenta delle difficoltà. Difficoltà relative a quel contesto. Credere che si è sempre le vittime di una situazione può aiutare ma anche ferire.
Ferite. Sì. Sembrano proprio delle ferite quelle crepe nel terreno che si snoda davanti a noi. Dare una struttura uniforme a queste strade è un’impresa ardua. Rivoletti di fango solcano la superficie. La moto di Faustin slitta. Sarà meglio fermarci a mettere qualcosa sotto i denti. Non ci sono autogrill, solo una capanna con due panche. Non c’è un tabellone con il menù del giorno, solo una scelta: piatto unico, riso, fagioli, pondù, pollo.
Il paesaggio cambia di nuovo. Torniamo nella foresta. Proprio quella con gli alti alberi da cui pendono le liane. Proprio quella dove la pioggia breve della mattinata ha creato delle poltiglie di fango color terra di Siena. Proprio quella che mi ricorda tanto Jurassic Park. Ad un certo punto mancavano solo le strida di un T-Rex….ma la seconda buca alla camera d’aria non si è fatta attendere. Questo perché è entrata in gioco , per effetti della interculturalità incarnata dalla mia compagna italo-nicaraguense, la deformazione mentale del “non c’è tre senza quattro”. Sempre pneumatico anteriore destro. In pratica la nostra unica e ultima ruota di scorta. Che si fa adesso? A quanto pare il villaggio più vicino dista parecchi chilometri e gli unici che potrebbero darci una mano sono una cinquantina di operai locali impegnati nel caricare un gigantesco camion arancione ( un bestione che con le sue enormi ruote non fa che rendere ancora più impraticabili le strade già precarie) di plance di legna. Dico potrebbero perché in realtà hanno fretta e dopo averci lanciato qualche occhiata maliziosa ( due bianche in mezzo alla foresta…chissà come e cosa hanno pensato) montano su e ci lasciano lì. È quasi l’imbrunire. Non è certo consigliabile farsi sorprendere dalla notte in un punto tanto lontano da un centro abitato che seppur piccolo è sempre sinonimo di sicurezza. Relativa, ma sicurezza. Nessuno dà voce alle paure ma tutti e sei sappiamo che i gruppi ribelli di cui abbiamo tanto sentito parlare bazzicano da queste parti. I nostri fantastici 4 allora se ne inventano una alla congolese. Ci mettiamo a raccogliere foglie per creare una camera d’aria vegetale di modo che il nostro pneumatico possa fare qualche chilometro. Cosa pensavo in quei momenti? Che figata! Un’avventura! Ero lì ma mi sembrava di non esserci. Come sempre. Mai e poi mai mi sarei immaginata di vivere una cosa come questa. Quanto il mondo è vario? Se solo ci fermassimo ogni tanto a pensare che già fuori da casa nostra, e poi dalla nostra città, dal nostro Paese, dal nostro continente c’è tutto un altro modo di vivere, pensare, muoversi, agire, sarebbe tutto più entusiasmante e meno scontato. Non lo pensavo solo per me. Lo pensavo e lo penso anche per i congolesi che spesso, come tutti i popoli , parlano come se fossero i soli a vivere certe situazioni. Non dico che non sia bizzarro ritrovarsi a marciare a passo d’uomo su una jeep che non è più bianca ma ricoperta di schizzi al color di cioccolato con delle foglie stipate nello pneumatico ma chi, ovunque nel mondo, non si è trovato a gestire una serie di eventi bizzarri? Quel giorno è toccato a noi. Faustin e io siamo saliti in moto per cercare di raggiungere il villaggio che dista 30 minuti da Dungu, fiduciosi in un aiuto. Mentre lasciavo che il vento mi sferzasse le guance, guardavo i colori cambiare. Il sole di preparava a dormire e noi eravamo in mezzo al nulla. Un nulla che ad un certo punto si è riempito dei suoni della mia lingua. Il frate che ci ha accolti parlava italiano ma solo per dirci che non avevano mai avuto un auto! Dovevamo arrivare a Dungu se volevamo riuscire a trovare una ruota. Bene. Non potevamo certo lasciare gli altri nell’attesa, perciò siamo tornati indietro e ,caricata l’altra moto, abbiamo lasciato che Emmanuel e Celestin dormissero in un villaggetto dove avevano parcheggiato la nostra vettura con uno pneumatico pressoché inesistente ormai.
Non sono mai stata appassionata di viaggi in moto, ma chi decide quando una passione può nascere? Quella sera mentre sfrecciavamo verso la fantomatica città della salvezza, ero felice anche se avevo freddo. Pensieri disparati si rincorrevano nel tentativo di riscaldarmi. Ogni tanto il  piatto velluto di oscurità intorno a noi sembrava prendere vita. Ma cosa si muove lì? Uno, due uomini ( o donne?). Una bicicletta. Niente torcia. Solo gli occhi come fari nella notte. È abitudine. Sono nati in questo nero. Sanno camminare nel buio. Tornano a casa praticamente ad occhi chiusi. Ad un tratto l’aria cambia. Più calda. Un calore artificiale. Odori diversi. L’umido sentore della foresta lascia il posto al pastoso profumo d’olio di palma. Siamo arrivati. Ecco qualche fuocherello alla cui fiamma si stagliano pigramente le prime capanne. Dungu. Finalmente. La prima cosa da fare è cercare un posto dove dormire. Domattina ci si organizzerà per cercare una nuova gomma. Il piccolo seminario degli Agostiniani ci accoglie ( lascio libera interpretazione a questo verbo che include qualcosa che si chiama pagare)  e così, un po’ preoccupati per il resto della compagnia che non è con noi, ci addormentiamo felici di essere arrivati.
La nostra domenica a Dungu l’abbiamo passata da turiste, se così si può dire. Girare per le strade di un villaggio congolese che non è Rungu, è stato strano. Abbiamo cominciato a cercare tra la folla che lasciava la chiesa, quelli che per noi sono ormai più che conoscenti. “Ma quello lì non è Duabo?”. “Ehi, lì c’è la piccola bambina che va alla scuola materna!”. Solo miraggi. Solo somiglianze. Spalle simili. Capelli simili. Ma non sono loro. Non siamo a casa. E a confermarcelo è la presenza di gas di scarico nell’aria. Qui per la posizione particolarmente a rischio ( siamo nel cuore della cosiddetta zona rossa della RDC) ci sono decine di organismi internazionali che hanno la loro sede e che si muovono con  vetture e camion. Uno di questi passa stracarico di caschi blu. I militari delle Nazioni Unite. Tutti bianchi. Oh! Sono mesi che vivo circondata dalla pelle scura, rivedere dei visi chiari mi suona familiare ma allo stesso tempo bizzarro. Ci salutano come matti! Si creano buffi meccanismi quando sei straniero in una terra e incontri per caso qualcuno che viene dallo stesso continente che non conosci nemmeno o se girando per il mercato incroci gli occhi azzurri di una ragazza statunitense che ti fa un cenno. Come a dire: ti vedo. Ci si sbraccia per salutarsi. Per riconoscersi. Al contrario se ti capita di passeggiare nella tua cittadina di provincia, finisci per evitare di salutare perfino chi dovresti ! Non è forse così?
Tutto sommato Dungu non è tanto diverso dal nostro villaggio. I suoni. I colori. I profumi. I bambini che corrono a stringerti la mano. La gente con i suoi sguardi tra il “Eccone due altre. Che buffe che sono con quei capelli lisci” e il “Ma da dove saltate fuori?”. Qualcuno ci scambia per qualcun altro. Altri ci chiamano solo mondele. Un altro ancora grida “ Mbote Mariemoiselle” in un misto di non so che lingua. E noi? Sudiamo e continuiamo a mangiare la polvere. A sperare che i nostri eroi tornino a prenderci. Nell’attesa lo stomaco brontola. Compriamo due cucchiai di pasta di arachidi avvolta nelle foglie di banano e due bignè di manioca fritti nell’indigeribile ma gustoso olio di palma. Un po’ di fresco sotto la capanna. Il silenzio è rotto da una vettura. Sono loro! La squadra è di nuovo al completo. La nostra Land Rover è tornata in piena forma e ha già adempito a quella che è la sua missione: trasportare medicinali e materiale sanitario per l’ospedale. È per questo che siamo qui. Ci lasciamo guidare per le vie del villaggio. Passiamo sui famosi due ponti che permettono di valicare un altro affluente del fiume Congo, il Kibali. Il pomeriggio c’è grande frenesia dall’altra parte della riva. Il mercato attira la gente. Sapone, bibite, abiti, pile, benzina. Il caldo è pressoché insopportabile. Qualcuno ci chiama per nome. Ma come? Chi è? È una signora di Rungu! Come non possiamo non pensare   “ Come è piccolo il mondo!”. Chi se lo aspettava che avremmo davvero incontrato qualcuno che ci conosceva! Ed è come sentirsi a casa.
Giovani e non sono stipati davanti alla tv di un ristorante. Si disputa un grande match. La squadra di calcio della RDC gioca contro la Guinea Equatoriale. Penso proprio che il calcio sia un collante sociale, in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Non ci resta che tifare e gustarci un buon piatto di riso e pondù per poter poi andare a salutare questa giornata, pronti per il viaggio di ritorno dell’indomani.
È l’indomani, lunedì. Sono appena andati via due ispettori dell’ufficio immigrazioni. Hanno voluto sapere chi eravamo e cosa facevamo lì. Dare un’occhiata ai nostri documenti. Porco cane! Vuoi vedere che c’è qualcosa che non va? Il sudore mi imperlava la fronte mentre maledicevo la burocrazia mondiale. Troppe scene da film nella mia testa ( lo ammetto), ma alla fine non si è realizzato niente di quello che temevo. Pura formalità. Arrivederci e grazie. Buon soggiorno e buon rientro. A proposito di rientro. È arrivato il momento di caricare con attenzione e studiati calcoli tutto il nostro prezioso carico. Ci diamo da fare a svuotare , riempire , scocciare, imballare, legare, incastrare, montare, assicurare, stipare, equilibrare. Il sole picchia già alto. L’auto è pronta. I posti liberi per noi questa volta non ci sono. Il ritorno sarà in moto. Indossiamo i nostri giubbini da combattimento e ci accomodiamo nello spazio accuratamente lasciato libero tra lo chauffeur e il grosso sacco che c’è su ognuna della due moto.  Ecco si, diciamo pure che “accomodarsi” non è forse il termine più adatto a quella che è stata la nostra sistemazione. Ogni sobbalzo uno sbilanciamento ora a destra, ora a sinistra. Una testata al casco di Celestin che poveretto doveva districarsi tra il mio peso e il fango sotto le ruote. Ma prima di arrivare a questo non posso dimenticare il cuore che ha rischiato di venire fuori quando per passare su un buco in mezzo alla strada, la nostra jeep ha slittato sulle plance messe a mo di passerella. Un attimo. No. Non ha precisamente slittato, è pericolosamente uscita dal binario di fortuna poggiando sulla carrozzeria. Se non fosse stato per la prontezza di riflessi di Dido, non so quando e se avremmo ripreso il nostro già posticipato ritorno, anche a causa di un piccolo posto di blocco che abbiamo superato fornendo tutte le carte in regola e allungando qualche franco (…).
Ovviamente come già per l’andata, le avventure non si sono fatte attendere. Tutte da un’altra prospettiva questa volta. La prospettiva delle motocicliste. Chilometri di strade fatte di fango. Fango di quello che sembra prendere vita e risucchiare le ruote. E ti porta a scivolare. Fango che fa da letto a pozze d’acqua che formano veri e propri fiumi su quella che in altre parole è l’autostrada. Ci sono stati momenti in cui vedere il mio Celestin fare leva sulle sue ginocchia per farci uscire da quella fanghiglia micidiale, mi ha fatto davvero venire voglia di piangere. Allora smontavo e almeno cercavo di rendergli un tantino più leggera la moto. I miei piedi affondavano nella poltiglia. Ogni passo un risucchio. I passanti senza scarpe mi salutavano ma io ero troppo concentrata a non perdere l’equilibrio. Lanciavo uno sguardo un po’ più in avanti, un po’ più in là …ma quando finisce questo pantano??? La melma era tutta davanti a noi. Infinita. Ad un certo punto sembravamo dei birilli in groppa ad una moto. Siamo caduti due volte ! Ci siamo rialzati con il sorriso sulle labbra perché niente era rotto ( d’altronde a 10 km all’ora è un tantino difficile…) giusto in tempo per vedere la moto che veniva nel senso opposto cadere a sua volta. Ma tra una scivolata e l’altra si trova il tempo per parlare dell’Italia e del Congo, del cibo, dei viaggi in bicicletta fatti già su quella stessa strada, del percorso di studio che si vorrebbe intraprendere “ l’anno prossimo, perché in questo devo lavorare per mettere da parte i soldi”, delle tradizioni e della vita. Attraversiamo di nuovo la savana. Questa volta i lunghi fili d’erba mi sfiorano le guance e il vento soffia caldo. Entra con insistenza sotto il cappuccio e mi scompiglia i capelli. Un serpente nero e giallo sembra proprio insonnolito. Non gli va di lasciarci passare. Ogni tanto uno sguardo indietro per vedere come se la cava la nostra auto. Quello che per noi può essere un buon terreno per lei può rivelarsi fatale e costringerci ad un altro rallentamento. Le mie gambe sono un grovigli di crampi. In alcuni momenti vorrei veramente scendere. Ma poi incrocio gli occhi del commerciante ambulante che va lì, da dove noi veniamo e vedo lo sforzo nei muscoli tesi delle sue braccia, le infradito infilate nel retro degli stivali, la maglietta stracciata. Allora stringo i denti e provo un pizzico di vergogna. Cosa penseranno? Ecco la bianca che vive l’avventura, mentre per noi questa è la quotidianità. Beh , in parte è vero. Come è anche vero che non mollo. Che ci sono e riesco a vedere anche a come spesso ci si lascia andare di fronte a cose più grandi di noi, nascondendosi dietro un vittimismo che alla fine riconosco come frutto di una serie naturale di calcoli alla “2+2=4”. Questo è un meccanismo che ci rende tutti uguali. Nei luoghi e nel tempo.
La luna ha già bussato alla porta del cielo perché la lasci entrare perciò, dopo esserci dissetati con delle arance acquistate strada facendo, decidiamo di passare la notte a Niangara. Due bambini si sono fermati un minuto a giocare con me. Mi hanno chiamata. Sventolo la mano e ricambiano. Sono lontani una cinquantina di metri. Muovo un passo verso di loro. Scappano via e si nascondono dietro il muro. Sorrido. Una testolina sporge e mi fa cenno di avvicinarmi. È solo una provocazione perché appena mi muovo scompare ancora. Non è la prima volta che mi succede. Da lontano sono così spavaldi e salutano la “bianca” senza timore, ma appena accenno un avvicinamento…puff! La spavalderia lascia il posto alla soggezione e il coraggio svanisce…!
 Questa volta  ad ospitarci sono i preti comboniani. Il loro convento non è certo una reggia, ma l’accoglienza e la compagnia sono gli arredi migliori per sentirci a nostro agio. Una “doccia” veloce, un pollo che è passato sotto i miei occhi direttamente dal cortile alla padella, quattro chiacchiere, una birra a metà, un materasso infossato, il silenzio della notte.
L’indomani abbiamo anche il tempo per una breve passeggiata nell’aria mattutina. I ragazzi che vanno a scuola. Ancora una volta il bianco e il blu, colori a noi tanto famigliari. Sono le divise. I sorrisi. La campana che segna l’inizio delle lezioni. I quaderni in bilico sulla testa. I bambini più grandi che prendono per mano i più piccoli. Ma di quanto saranno davvero più grandi? Due pollici? A volte anche meno. Mancano circa sei ore al nostro agognato rientro. Rimontare in sella alla moto ci fa avvertire i primi scricchiolii muscolari e ci ricorda per un attimo quello che è stato il nostro viaggio di ieri. Incredibile come riusciamo a dimenticare la fatica appena qualcosa d’altro ci distrae. Anche oggi non mancano gli intoppi. Per due volte i nostri fantastici 4 hanno dovuto creare a colpi di machete una strada alternativa per aggirare due grossi camion impantanati. Il secondo , in particolare, è veramente messo male. Tutti gli operai hanno perso la grinta. Cantano e ci guardano. Noi approfittiamo della sosta per sgranchirci le gambe e porci alcune domande su quello che vediamo. La foresta sembra ispirarci pensieri bizzarri.
Ormai manca poco. Celestin cronometra i chilometri. Conosce a menadito ogni capanna e ogni albero. Ma come fanno ad orientarsi? Un mistero per me. Sentimenti contrastanti mi animano. Da un lato sogno la doccia e casa mia, rivedere Rungu e le persone che adesso sono la mia famiglia; dall’altro mi dispiace smontare dalla moto, salutare il mio chauffeur, scendere con i piedi per terra e impedire al vento di sferzarmi il viso.
Siamo a casa adesso e come alla fine di ogni viaggio, il cuore mi batte forte. Chiudo gli occhi e penso che non c’è modo migliore di gustare il mondo in tutte le sue infinite sfaccettature  se non immergendosi in esso, senza se e senza ma, con il bello e il cattivo tempo, con la strada asfaltata e non, con le camere d’aria bucate e integre, con gli sguardi truci e i sorrisi, con gli acciacchi e senza. Mi volto indietro, guardo il cammino che ho appena concluso e canticchio….. “ Siiiii, viaggiareeee! Nanananananana”.
http://www.youtube.com/watch?v=fSDNJzxuVaw