“Siiii, viaggiareeeee! Nanananananana!”
Non ricordo come continua questa canzone di Battisti ma è il motivetto che canticchio silenziosamente mentre carichiamo gli zaini per
il nostro viaggio a Dungu. Sono le 6:30 di sabato 8 settembre. La nebbia è
scomparsa lentamente per fare spazio ad un sole caldo e carico di promesse. Si
parte finalmente! Lasciate alle spalle le fobie (legittimamente fondate) per
un’eventuale serie di imprevisti che ogni viaggio che si rispetti può nascondere,
montiamo sulla nostra Land Rover bianca un po’ arrugginita. Dido ed Emmanuel
sono i nostri autisti. Celestin e Faustin ci precedono in moto.
Un attimo. Sto correndo troppo. Occorre
fare una piccola premessa. Qui il mezzo di locomozione per eccellenza è la moto
( terzo solo ai piedi e alla bicicletta). Le caratteristiche strade congolesi
che attraversano come stretti serpenti di polvere e fango rosso la foresta
tropicale sono capaci di svelare stupendi angoli di natura incontaminata solo
grazie ad una buona dose di equilibrio, stomaco resistente agli scossoni e
muscoli allenati. Le auto? Qui? Un miraggio! Ricordo bene il giorno del nostro
arrivo ( quasi 7 mesi fa). I bambini che ci correvano incontro gridando “mo-tu-kaaaaa”.
Mi sono chiesta da dove derivasse quell’entusiasmo, quello stesso tono usato
quando si vede qualcosa di raro.
Intraprendere un viaggio in auto E’ un
evento RARO. E questo l’ho capito mentre tentavo di uscire in fretta dal sedile
posteriore mentre l’acqua rossa si faceva largo nell’abitacolo. Eravamo immersi
fino alle portiere dal lato sinistro e impantanati nel fango dal lato destro,
il tutto in un precario equilibrio. Cavolo, ho pensato! E meno male che il
nostro amico agronomo ci ha detto “Ma cosa può succedere?”. Non potevo fare altro
che pensare, dal momento che la mia forza di ragazza era insignificante in
confronto a quella dei miei quattro amici congolesi che tentavano di tirarci
fuori da quella pozzanghera. Ed eravamo partiti da quanto? Un’ora? Cosa altro
poteva succedere? Sobbalzare decine di volte; dare testate al tetto della jeep;
corrugare le sopracciglia al suono di scricchiolii dalla dubbia provenienza; avere
l’orribile sensazione di stare per vomitare; temere che, durante uno degli
svariati tentativi di venir fuori dal pantano, il cambio resti in mano a Dido
come nella più classica scena da film; preoccuparsi per Celestin che cade con
la moto scivolando nel fango. Ecco cosa.
Intorno a noi solo la macchia di un
colore, il verde. Il verde dei grandi alberi della foresta tropicale. Le grida
dei bambini che abitano i minuscoli villaggi disseminati lungo la strada.
“Karibu mondele!”, Benvenuto europeo.
La fatica dei commercianti ambulanti che percorrono il nostro stesso itinerario
spingendo biciclette stracariche di sacchi d’olio di palma e maiali incazzati
per lo spostamento imposto. Il sorriso. Il sorriso è la cosa che mi ha colpito
ancora una volta. Capita di incrociare lo sguardo serio, oserei dire spento, di
una donna con le foglie di manioca sulla testa. Un secondo dopo sollevo la mano
per salutarla. Ed ecco la magia. Il suo viso si apre. Si apre, sì. Non c’è
verbo migliore per descriverlo. Si apre in un bellissimo sorriso. Caldo. Vero.
Illuminante. Un attimo prima mi dicevo: ecco, sta pensando a me come alla
bianca ricca e presuntuosa. L’attimo dopo quella luce sul suo viso e la gioia
nel mio petto.
Il paesaggio è cambiato adesso. Alti
fili d’erba. Il cielo più vicino. Stiamo attraversando un tratto di savana. La
stagione delle piogge ha permesso alle foglie di svilupparsi in altezza e non è
difficile correre con la fantasia. Un leone acquattato dietro quel cespuglio,
un elefante che si abbevera a quella pozza laggiù. In realtà sognare ad occhi
aperti non è facile. Abbiamo bisogno di fare una sosta d’emergenza. La camera
d’aria dello pneumatico anteriore destro si è bucata. Niente panico, ragazzi!
La ruota di scorta è montata sul cofano proprio per queste occasioni, no? Può
sembrare stupido ma per pura deformazione mentale all’italiana pensavo “non c’è
due senza tre”. Ed ecco la terza. Siamo da poco sbucati fuori dalla deviazione
( 60 km che sostituiscono i dissestati 21) che è l’unica che ci permette di
raggiungere la nostra meta senza (troppi) intoppi e che ci ha offerto anche la
possibilità di vedere con i nostri occhi il centro dell’Africa. Si trova a
Niangara ed è segnalato da una sorta di obelisco mezzo distrutto. Come molte
delle costruzioni di questo villaggio fantasma. Attraversata da uno dei grandi
affluenti del fiume Congo, l’Uélé,
Niangara conserva i resti della colonizzazione belga. Case dai tipici
mattoncini rossi alternate alle capanne di fango ormai a me tanto famigliari.
Un grande viale di alberi di mango. Alti, belli, slanciati. Come sentinelle al
nostro passaggio. Uno di questi è sdraiato in mezzo alla strada. Tutto intorno
si affannano uomini e donne armati di machete. La nostra auto ha bisogno di
spazio per passare. E così su quelle braccia dalla pelle scura il sudore
scivola in fretta per liberarci un varco. La gente ci guarda. Alcuni si
limitano a salutarci. Altri ci propongono il matrimonio. Altri ancora restano
in silenzio. Un silenzio che lascio spazio alla mia immaginazione. Cosa stai
pensando ragazza dagli occhi neri e liquidi? Cosa pensi di questa tua sorella mondele che viene da una terra forse
tanto , troppo ben stereotipata? Non lo so. Una voce attira il mio orecchio
mentre riprendiamo il nostro viaggio : “ Demoiselle, ça c’est la souffrance du Congo!”.
Ecco, sì. Avevo dimenticato. Forse me lo merito. In fondo in quel momento sono
la rappresentante di quella categoria di uomini che da anni sfrutta questo
continente. Perché non farle notare che qui la gente soffre? Tutto questo mi fa
uno strano effetto. Da un lato sento che c’è la verità, dall’altro so che ogni
luogo, ogni ambiente, ogni situazione presenta delle difficoltà. Difficoltà
relative a quel contesto. Credere che si è sempre le vittime di una situazione
può aiutare ma anche ferire.
Ferite. Sì. Sembrano proprio delle
ferite quelle crepe nel terreno che si snoda davanti a noi. Dare una struttura
uniforme a queste strade è un’impresa ardua. Rivoletti di fango solcano la
superficie. La moto di Faustin slitta. Sarà meglio fermarci a mettere qualcosa
sotto i denti. Non ci sono autogrill, solo una capanna con due panche. Non c’è
un tabellone con il menù del giorno, solo una scelta: piatto unico, riso,
fagioli, pondù, pollo.
Il paesaggio cambia di nuovo. Torniamo
nella foresta. Proprio quella con gli alti alberi da cui pendono le liane.
Proprio quella dove la pioggia breve della mattinata ha creato delle poltiglie
di fango color terra di Siena. Proprio quella che mi ricorda tanto Jurassic
Park. Ad un certo punto mancavano solo le strida di un T-Rex….ma la seconda
buca alla camera d’aria non si è fatta attendere. Questo perché è entrata in
gioco , per effetti della interculturalità incarnata dalla mia compagna
italo-nicaraguense, la deformazione mentale del “non c’è tre senza quattro”.
Sempre pneumatico anteriore destro. In pratica la nostra unica e ultima ruota
di scorta. Che si fa adesso? A quanto pare il villaggio più vicino dista
parecchi chilometri e gli unici che potrebbero darci una mano sono una
cinquantina di operai locali impegnati nel caricare un gigantesco camion
arancione ( un bestione che con le sue enormi ruote non fa che rendere ancora
più impraticabili le strade già precarie) di plance di legna. Dico potrebbero
perché in realtà hanno fretta e dopo averci lanciato qualche occhiata maliziosa
( due bianche in mezzo alla foresta…chissà come e cosa hanno pensato) montano
su e ci lasciano lì. È quasi l’imbrunire. Non è certo consigliabile farsi
sorprendere dalla notte in un punto tanto lontano da un centro abitato che
seppur piccolo è sempre sinonimo di sicurezza. Relativa, ma sicurezza. Nessuno
dà voce alle paure ma tutti e sei sappiamo che i gruppi ribelli di cui abbiamo
tanto sentito parlare bazzicano da queste parti. I nostri fantastici 4 allora
se ne inventano una alla congolese. Ci mettiamo a raccogliere foglie per creare
una camera d’aria vegetale di modo che il nostro pneumatico possa fare qualche
chilometro. Cosa pensavo in quei momenti? Che figata! Un’avventura! Ero lì ma
mi sembrava di non esserci. Come sempre. Mai e poi mai mi sarei immaginata di
vivere una cosa come questa. Quanto il mondo è vario? Se solo ci fermassimo
ogni tanto a pensare che già fuori da casa nostra, e poi dalla nostra città,
dal nostro Paese, dal nostro continente c’è tutto un altro modo di vivere,
pensare, muoversi, agire, sarebbe tutto più entusiasmante e meno scontato. Non
lo pensavo solo per me. Lo pensavo e lo penso anche per i congolesi che spesso,
come tutti i popoli , parlano come se fossero i soli a vivere certe situazioni.
Non dico che non sia bizzarro ritrovarsi a marciare a passo d’uomo su una jeep
che non è più bianca ma ricoperta di schizzi al color di cioccolato con delle
foglie stipate nello pneumatico ma chi, ovunque nel mondo, non si è trovato a
gestire una serie di eventi bizzarri? Quel giorno è toccato a noi. Faustin e io
siamo saliti in moto per cercare di raggiungere il villaggio che dista 30
minuti da Dungu, fiduciosi in un aiuto. Mentre lasciavo che il vento mi
sferzasse le guance, guardavo i colori cambiare. Il sole di preparava a dormire
e noi eravamo in mezzo al nulla. Un nulla che ad un certo punto si è riempito
dei suoni della mia lingua. Il frate che ci ha accolti parlava italiano ma solo
per dirci che non avevano mai avuto un auto! Dovevamo arrivare a Dungu se
volevamo riuscire a trovare una ruota. Bene. Non potevamo certo lasciare gli
altri nell’attesa, perciò siamo tornati indietro e ,caricata l’altra moto,
abbiamo lasciato che Emmanuel e Celestin dormissero in un villaggetto dove
avevano parcheggiato la nostra vettura con uno pneumatico pressoché inesistente
ormai.
Non sono mai stata appassionata di viaggi
in moto, ma chi decide quando una passione può nascere? Quella sera mentre
sfrecciavamo verso la fantomatica città della salvezza, ero felice anche se
avevo freddo. Pensieri disparati si rincorrevano nel tentativo di riscaldarmi.
Ogni tanto il piatto velluto di oscurità
intorno a noi sembrava prendere vita. Ma cosa si muove lì? Uno, due uomini ( o
donne?). Una bicicletta. Niente torcia. Solo gli occhi come fari nella notte. È
abitudine. Sono nati in questo nero. Sanno camminare nel buio. Tornano a casa
praticamente ad occhi chiusi. Ad un tratto l’aria cambia. Più calda. Un calore
artificiale. Odori diversi. L’umido sentore della foresta lascia il posto al
pastoso profumo d’olio di palma. Siamo arrivati. Ecco qualche fuocherello alla
cui fiamma si stagliano pigramente le prime capanne. Dungu. Finalmente. La
prima cosa da fare è cercare un posto dove dormire. Domattina ci si organizzerà
per cercare una nuova gomma. Il piccolo seminario degli Agostiniani ci accoglie
( lascio libera interpretazione a questo verbo che include qualcosa che si
chiama pagare) e così, un po’ preoccupati per il resto della
compagnia che non è con noi, ci addormentiamo felici di essere arrivati.
La nostra domenica a Dungu l’abbiamo
passata da turiste, se così si può dire. Girare per le strade di un villaggio
congolese che non è Rungu, è stato strano. Abbiamo cominciato a cercare tra la
folla che lasciava la chiesa, quelli che per noi sono ormai più che conoscenti.
“Ma quello lì non è Duabo?”. “Ehi, lì c’è la piccola bambina che va alla scuola
materna!”. Solo miraggi. Solo somiglianze. Spalle simili. Capelli simili. Ma
non sono loro. Non siamo a casa. E a confermarcelo è la presenza di gas di
scarico nell’aria. Qui per la posizione particolarmente a rischio ( siamo nel
cuore della cosiddetta zona rossa della RDC) ci sono decine di organismi
internazionali che hanno la loro sede e che si muovono con vetture e camion. Uno di questi passa
stracarico di caschi blu. I militari delle Nazioni Unite. Tutti bianchi. Oh!
Sono mesi che vivo circondata dalla pelle scura, rivedere dei visi chiari mi
suona familiare ma allo stesso tempo bizzarro. Ci salutano come matti! Si
creano buffi meccanismi quando sei straniero in una terra e incontri per caso
qualcuno che viene dallo stesso continente che non conosci nemmeno o se girando
per il mercato incroci gli occhi azzurri di una ragazza statunitense che ti fa
un cenno. Come a dire: ti vedo. Ci si sbraccia per salutarsi. Per riconoscersi.
Al contrario se ti capita di passeggiare nella tua cittadina di provincia,
finisci per evitare di salutare perfino chi dovresti ! Non è forse così?
Tutto sommato Dungu non è tanto diverso
dal nostro villaggio. I suoni. I colori. I profumi. I bambini che corrono a
stringerti la mano. La gente con i suoi sguardi tra il “Eccone due altre. Che
buffe che sono con quei capelli lisci” e il “Ma da dove saltate fuori?”.
Qualcuno ci scambia per qualcun altro. Altri ci chiamano solo mondele. Un altro
ancora grida “ Mbote Mariemoiselle” in un misto di non so che lingua. E noi?
Sudiamo e continuiamo a mangiare la polvere. A sperare che i nostri eroi
tornino a prenderci. Nell’attesa lo stomaco brontola. Compriamo due cucchiai di
pasta di arachidi avvolta nelle foglie di banano e due bignè di manioca fritti
nell’indigeribile ma gustoso olio di palma. Un po’ di fresco sotto la capanna.
Il silenzio è rotto da una vettura. Sono loro! La squadra è di nuovo al
completo. La nostra Land Rover è tornata in piena forma e ha già adempito a
quella che è la sua missione: trasportare medicinali e materiale sanitario per
l’ospedale. È per questo che siamo qui. Ci lasciamo guidare per le vie del
villaggio. Passiamo sui famosi due ponti che permettono di valicare un altro
affluente del fiume Congo, il Kibali. Il pomeriggio c’è grande frenesia
dall’altra parte della riva. Il mercato attira la gente. Sapone, bibite, abiti,
pile, benzina. Il caldo è pressoché insopportabile. Qualcuno ci chiama per
nome. Ma come? Chi è? È una signora di Rungu! Come non possiamo non pensare “ Come
è piccolo il mondo!”. Chi se lo aspettava che avremmo davvero incontrato
qualcuno che ci conosceva! Ed è come sentirsi a casa.
Giovani e non sono stipati davanti alla
tv di un ristorante. Si disputa un grande match. La squadra di calcio della RDC
gioca contro la Guinea Equatoriale. Penso proprio che il calcio sia un collante
sociale, in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Non ci resta che tifare e gustarci
un buon piatto di riso e pondù per poter poi andare a salutare questa giornata,
pronti per il viaggio di ritorno dell’indomani.
È l’indomani, lunedì. Sono appena andati
via due ispettori dell’ufficio immigrazioni. Hanno voluto sapere chi eravamo e
cosa facevamo lì. Dare un’occhiata ai nostri documenti. Porco cane! Vuoi vedere
che c’è qualcosa che non va? Il sudore mi imperlava la fronte mentre maledicevo
la burocrazia mondiale. Troppe scene da film nella mia testa ( lo ammetto), ma
alla fine non si è realizzato niente di quello che temevo. Pura formalità.
Arrivederci e grazie. Buon soggiorno e buon rientro. A proposito di rientro. È
arrivato il momento di caricare con attenzione e studiati calcoli tutto il
nostro prezioso carico. Ci diamo da fare a svuotare , riempire , scocciare,
imballare, legare, incastrare, montare, assicurare, stipare, equilibrare. Il
sole picchia già alto. L’auto è pronta. I posti liberi per noi questa volta non
ci sono. Il ritorno sarà in moto. Indossiamo i nostri giubbini da combattimento
e ci accomodiamo nello spazio accuratamente lasciato libero tra lo chauffeur e
il grosso sacco che c’è su ognuna della due moto. Ecco si, diciamo pure che “accomodarsi” non è
forse il termine più adatto a quella che è stata la nostra sistemazione. Ogni
sobbalzo uno sbilanciamento ora a destra, ora a sinistra. Una testata al casco
di Celestin che poveretto doveva districarsi tra il mio peso e il fango sotto
le ruote. Ma prima di arrivare a questo non posso dimenticare il cuore che ha
rischiato di venire fuori quando per passare su un buco in mezzo alla strada,
la nostra jeep ha slittato sulle plance messe a mo di passerella. Un attimo.
No. Non ha precisamente slittato, è pericolosamente uscita dal binario di
fortuna poggiando sulla carrozzeria. Se non fosse stato per la prontezza di
riflessi di Dido, non so quando e se avremmo ripreso il nostro già posticipato
ritorno, anche a causa di un piccolo posto di blocco che abbiamo superato
fornendo tutte le carte in regola e allungando qualche franco (…).
Ovviamente come già per l’andata, le
avventure non si sono fatte attendere. Tutte da un’altra prospettiva questa
volta. La prospettiva delle motocicliste. Chilometri di strade fatte di fango.
Fango di quello che sembra prendere vita e risucchiare le ruote. E ti porta a
scivolare. Fango che fa da letto a pozze d’acqua che formano veri e propri
fiumi su quella che in altre parole è l’autostrada. Ci sono stati momenti in
cui vedere il mio Celestin fare leva sulle sue ginocchia per farci uscire da
quella fanghiglia micidiale, mi ha fatto davvero venire voglia di piangere.
Allora smontavo e almeno cercavo di rendergli un tantino più leggera la moto. I
miei piedi affondavano nella poltiglia. Ogni passo un risucchio. I passanti
senza scarpe mi salutavano ma io ero troppo concentrata a non perdere
l’equilibrio. Lanciavo uno sguardo un po’ più in avanti, un po’ più in là …ma
quando finisce questo pantano??? La melma era tutta davanti a noi. Infinita. Ad
un certo punto sembravamo dei birilli in groppa ad una moto. Siamo caduti due
volte ! Ci siamo rialzati con il sorriso sulle labbra perché niente era rotto (
d’altronde a 10 km all’ora è un tantino difficile…) giusto in tempo per vedere
la moto che veniva nel senso opposto cadere a sua volta. Ma tra una scivolata e
l’altra si trova il tempo per parlare dell’Italia e del Congo, del cibo, dei
viaggi in bicicletta fatti già su quella stessa strada, del percorso di studio
che si vorrebbe intraprendere “ l’anno prossimo, perché in questo devo lavorare
per mettere da parte i soldi”, delle tradizioni e della vita. Attraversiamo di
nuovo la savana. Questa volta i lunghi fili d’erba mi sfiorano le guance e il
vento soffia caldo. Entra con insistenza sotto il cappuccio e mi scompiglia i
capelli. Un serpente nero e giallo sembra proprio insonnolito. Non gli va di
lasciarci passare. Ogni tanto uno sguardo indietro per vedere come se la cava
la nostra auto. Quello che per noi può essere un buon terreno per lei può
rivelarsi fatale e costringerci ad un altro rallentamento. Le mie gambe sono un
grovigli di crampi. In alcuni momenti vorrei veramente scendere. Ma poi incrocio
gli occhi del commerciante ambulante che va lì, da dove noi veniamo e vedo lo
sforzo nei muscoli tesi delle sue braccia, le infradito infilate nel retro
degli stivali, la maglietta stracciata. Allora stringo i denti e provo un
pizzico di vergogna. Cosa penseranno? Ecco la bianca che vive l’avventura,
mentre per noi questa è la quotidianità. Beh , in parte è vero. Come è anche
vero che non mollo. Che ci sono e riesco a vedere anche a come spesso ci si
lascia andare di fronte a cose più grandi di noi, nascondendosi dietro un
vittimismo che alla fine riconosco come frutto di una serie naturale di calcoli
alla “2+2=4”. Questo è un meccanismo che ci rende tutti uguali. Nei luoghi e
nel tempo.
La luna ha già bussato alla porta del
cielo perché la lasci entrare perciò, dopo esserci dissetati con delle arance
acquistate strada facendo, decidiamo di passare la notte a Niangara. Due
bambini si sono fermati un minuto a giocare con me. Mi hanno chiamata. Sventolo
la mano e ricambiano. Sono lontani una cinquantina di metri. Muovo un passo
verso di loro. Scappano via e si nascondono dietro il muro. Sorrido. Una
testolina sporge e mi fa cenno di avvicinarmi. È solo una provocazione perché
appena mi muovo scompare ancora. Non è la prima volta che mi succede. Da
lontano sono così spavaldi e salutano la “bianca” senza timore, ma appena
accenno un avvicinamento…puff! La spavalderia lascia il posto alla soggezione e
il coraggio svanisce…!
Questa volta
ad ospitarci sono i preti comboniani. Il loro convento non è certo una
reggia, ma l’accoglienza e la compagnia sono gli arredi migliori per sentirci a
nostro agio. Una “doccia” veloce, un pollo che è passato sotto i miei occhi
direttamente dal cortile alla padella, quattro chiacchiere, una birra a metà,
un materasso infossato, il silenzio della notte.
L’indomani abbiamo anche il tempo per
una breve passeggiata nell’aria mattutina. I ragazzi che vanno a scuola. Ancora
una volta il bianco e il blu, colori a noi tanto famigliari. Sono le divise. I
sorrisi. La campana che segna l’inizio delle lezioni. I quaderni in bilico
sulla testa. I bambini più grandi che prendono per mano i più piccoli. Ma di
quanto saranno davvero più grandi? Due pollici? A volte anche meno. Mancano
circa sei ore al nostro agognato rientro. Rimontare in sella alla moto ci fa
avvertire i primi scricchiolii muscolari e ci ricorda per un attimo quello che
è stato il nostro viaggio di ieri. Incredibile come riusciamo a dimenticare la
fatica appena qualcosa d’altro ci distrae. Anche oggi non mancano gli intoppi.
Per due volte i nostri fantastici 4 hanno dovuto creare a colpi di machete una
strada alternativa per aggirare due grossi camion impantanati. Il secondo , in
particolare, è veramente messo male. Tutti gli operai hanno perso la grinta.
Cantano e ci guardano. Noi approfittiamo della sosta per sgranchirci le gambe e
porci alcune domande su quello che vediamo. La foresta sembra ispirarci
pensieri bizzarri.
Ormai manca poco. Celestin cronometra i
chilometri. Conosce a menadito ogni capanna e ogni albero. Ma come fanno ad
orientarsi? Un mistero per me. Sentimenti contrastanti mi animano. Da un lato
sogno la doccia e casa mia, rivedere Rungu e le persone che adesso sono la mia
famiglia; dall’altro mi dispiace smontare dalla moto, salutare il mio
chauffeur, scendere con i piedi per terra e impedire al vento di sferzarmi il
viso.
Siamo a casa adesso e come alla fine di
ogni viaggio, il cuore mi batte forte. Chiudo gli occhi e penso che non c’è
modo migliore di gustare il mondo in tutte le sue infinite sfaccettature se non immergendosi in esso, senza se e senza
ma, con il bello e il cattivo tempo, con la strada asfaltata e non, con le
camere d’aria bucate e integre, con gli sguardi truci e i sorrisi, con gli
acciacchi e senza. Mi volto indietro, guardo il cammino che ho appena concluso
e canticchio….. “ Siiiii, viaggiareeee! Nanananananana”.
http://www.youtube.com/watch?v=fSDNJzxuVaw
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