giovedì 17 gennaio 2013

“COSA POSSO FARCI SE IL MIO CAMPO E’ COSI’ LONTANO?”


22 dicembre 2012


Piene vacanze di Natale. Il villaggio sembra vuoto. Quando le scuole sono chiuse è sempre così. Una strana quiete. E io abituata al via vai degli scolari sono sempre lì in attesa. Come se da un momento all’altro dovessi sentire la campanella e vederli correre fuori con i quaderni in testa. Giovedì mi trovavo alla scuola materna per aiutare i bambini adottati a scrivere  le letterine di Buon Natale e Buon Anno al papà o alla mamma che li sostiene dall’Italia. Un accento mancante su una “e”, un po’ di disegni da modello sulla lavagna, una sgridata a chi sgattaiola fuori per giocare sull’altalena ( anche se alla fine a dondolare ci sono andata anche io!).

Nathalie , una piccoletta di prima elementare, con la testa bollente e il corpicino tremante era sdraiata sulla panca.  È ammalata ma come sempre è stata mandata fuori casa senza molta attenzione. Georgine mi dice di portarla all’ospedale perché in quanto adottata ha diritto alle cure mediche, intanto lei va a cercare qualcuno della famiglia perché se il dottore optava per l’ospedalizzazione qualcuno con lei doveva restarci! Così ho infilato i soldi in tasca, l’ho presa in braccio con addosso SOLO il suo consunto vestitino rosa e sono andata in ospedale. Ho seguito tutta la trafila. Prima ho comprato un nuovo libretto sanitario, poi ho fatto la fila per pagare la consultazione dal medico e quando l’impiegato è arrivato mi ha fatto passare avanti.  “Ma non segui l’ordine d’arrivo dei pazienti?” gli ho detto. C’era altra gente prima di me. Lui ha sorriso e ha continuato a segnare. Le preferenze di pelle mi fanno veramente girare quelle che non ho! Allora mi ha scritto la visita e siamo andate  a pagare e poi a sederci fuori dalla studio del dottore. La bambina scotta ancora di più e io già mi immagino il peggio. È così facile vedere smettere di respirare un bambino qui. La gente mi guarda e mi chiede se è mia figlia. Cosa posso rispondere? “SI”.

Anche il dottore mi fa passare avanti e durante la visita mi chiede cosa penso di fare al mio rientro. Cosa penso di fare per quest’Africa. Mi metterò a cercare fondi? Il cervello comincia fumarmi. “Possiamo pensare alla bambina?” Allora le prende la temperatura, 38,7 e nient’altro. Sarà malaria. Prescrive diverse medicine e l’ospedalizzazione. Fino ad adesso nessuno è venuto ad avvisarmi perciò sarò io la garde malade,  la persona che la assisterà. Il dottore mi guarda e ridacchia. Starà pensando “ oh questi bianchi folli!”.

Sono andata a pagare e mi hanno trovato una stanza a malapena. La pediatria è stracolma. Casi di anemia, malaria. Meningite. La stagione secca fa alzare tantissima polvere che veicola i vari virus e gli sbalzi di temperatura  del mattino presto e la sera indeboliscono il sistema immunitario. Le infermiere non mi sembrano per niente dolci.. Il lingala suona un po’ come il tedesco. Imperioso. Pieno di imperativi e senza per favore . Nathalie si stende sul materasso nudo in attesa delle lenzuola e le iniettano la perfusione di chinino. Le gocce scendono piano piano. Il chinino è pericolosissimo se entra in circolo a grande velocità. Geme un po’. Poi si  acquieta.  Allora mi guardo intorno. In ospedale ci sono già stata, ma mai come assistente di un paziente. È come vedere tutto per la prima volta. La stanza spoglia, le pareti sgretolate, odore di pipì, le padelle del cibo a terra sotto il comodino con i cucchiai sporchi. Un bambino con gli occhi sgranati che mi fissa apatico, un altro malnutrito senza forza in braccio alla mamma. Da quando sono qui è il primo che vedo in questo stato. Veramente come quelli dei film. Ossa. Ossa e ossa. Una testa enorme per di più. Non parla. Mangia quelle grosse larve bianche boccheggiando come un pesce. La testa gli pende all’indietro. Il pisellino una cosa grinzosa in mezzo a due ossa lunghe, le gambe. Chiudo gli occhi e caccio indietro le lacrime. Li riapro e chiedo alla signora some stava. Così mi dice che ha avuto la meningite, è debole, ha le febbre, la tosse, sono lì da tre settimane. Lei non ha nessuno a darle il cambio. È sempre con il suo bambino.  Intanto la mia malata si muove e mi indica qualcosa con il ditino.  E cosa mi chiede? Con la testa che scoppia, sudata, senza nessuno, con l’ago infilato nel braccio? Cosa può chiedere una bambina minuscola che vive con la nonna che lascia lei e i suoi fratellini soli in casa per tre giorni per andare al campo ( è questo che abbiamo saputo della sua famiglia) sdraiata vicino ad una bianca che ha pagato per lei usando i soldi che erano nella tasca sinistra? “Mbongo”. Soldi. È questo che mi ha detto. Questo . Dapprima un’ondata di rabbia, poi la rassegnazione. Non è certo colpa sua. Ripete, fa quello che le hanno insegnato , quello che vede. Ho pensato che quello che stavo facendo era inutile. Che ci facevo là io?
Mi è passata a poco a poco. Ho cominciato a chiacchierare con le mamme, in un misto linguistico. Ho incontrato alcune persone che conosco già. Ho pensato a Maria che lavora da 30 anni in questo posto dove cerca di portare i nostri criteri ospedalieri, ma invano. Ho visto girare l’ostetrica tutta bardata dopo il cesareo con le forbici del parto fuori dalla sala. Galline a beccare nelle aiuole fuori dalle camere, bucce di noccioline sotto il letto, bambini a cui veniva cambiato il “ pannolino” per terra. Ho pensato che è tutto così diverso e complicato. Ma allo stesso tempo così tanto semplice. Senza tanti se e tanti ma.
 Intanto era girata la voce che la demoiselle assisteva una bambina e che la sua nonna è una irresponsabile. Dire che qui sono sempre sotto i riflettori è un eufemismo. Grazie a questo passaparola  è passata una donna che conosce la bambina e  si  è offerta di assisterla insieme al suo di bambino, ricoverato anche lui. Così sono andata a casa dopo 4 ore. Che giornata più assurda. Ci sono tornata nel pomeriggio e ieri mattina. Sempre sola era. Mi hanno detto che era arrivata una bambina per stare con lei ma io non l’ho vista. Mentre ero là mi chiedono il gruppo sanguigno e se potevo donare perché c’era una bambina di tre anni con 2 di emoglobina. Moriva se non facevano subito una trasfusione. Il problema è che qui tantissimi sono anemici e sangue non c’è. Pochissimi donano. Va bene. Ho già donato altre volte in Italia. Allora vedono che sono zero positivo e posso farlo. 
 Allora dopo la caccia alla vena ( “E meno male che sono bianca!” ho detto al laboratorista) mi hanno tirato il sangue. Nonostante Maria dicesse che bisognava fare presto , tutti erano calmi. Io stessa non mi sono resa conto di quanto fosse grave la cosa. Ma qui sono così flemmatici sempre. Io non ho nemmeno sentito questa donazione come diversa dalle altre eppure ho visto che il mio sangue è servito a qualcosa. Comunque la bambina sta bene oggi. Sono passata ieri pomeriggio e anche stamattina. Nathalie è uscita. Ma la nonna si è fatta viva solo oggi . Calma.
“ Cosa posso farci se il mio campo è così lontano?”